Fonte: Corriere della Sera
di Goffredo Buccini
Il nuovo carnaio e le immagini che hanno inorridito anche papa Francesco sui campi di tortura dei migranti basterebbero a giustificare un intervento occidentale (europeo) che prenda in mano il Paese
Forse non è ancora l’ultima chiamata. Ma la crisi libica è certo un bivio assai importante nella storia dell’Europa unita. Un defining moment, direbbero gli americani: di quelli, cioè, in cui passi la linea d’ombra e si vede di che pasta sei fatto.
Di quale pasta è fatta, dunque, questa Europa? A meno di un anno dalle prime elezioni forse davvero sentite dai cittadini dell’Unione (cioè non in termini di mera geopolitica ma di politica, non di élite burocratica ma di leadership popolare, con la grande opzione tra europeismo e sovranismo) alcuni tra gli Stati fondatori si trovano nella paradossale situazione di rischiare il collasso politico europeo. Quando ne racconteremo la storia, ci diremo che la partita libica aperta nel 2011 con l’eliminazione di Gheddafi (fortemente voluta dalla Francia) non s’è mai chiusa, provocando effetti assai gravi soprattutto sul nostro Paese in termini di migrazioni e contraccolpi sociali. Oggi, al finale di quella partita, i partner europei pongono in questione l’essenza stessa dell’Unione: che o è cooperazione o non è. Ci diranno che il bilancio europeo 2021-2027 infine ci aiuta (dunque sbaglieremmo a boicottarlo come minaccia il nostro esecutivo): aumenta la spesa per la protezione dei confini esterni e la gestione dei flussi migratori da circa 12 a oltre 30 miliardi di euro, con 10 miliardi per polizia e guardia costiera europee. Vero. Ma questo è il libro contabile di domani, mentre in Libia il sangue scorre ora. E scorre nella capitale, vicino alla nostra ambasciata, all’aeroporto: i morti sono decine, i feriti più di cento. Questo nuovo carnaio e le immagini che hanno inorridito anche papa Francesco sui campi di tortura dei migranti basterebbero a giustificare un intervento occidentale (europeo) che prenda in mano il Paese per ragioni umanitarie non meno palesi di quelle che valsero l’egida dell’Onu all’intervento contro Gheddafi, ne controlli spiagge e porti (filtrando in loco i flussi migratori che, in caso di crollo del simulacro di statualità ora in piedi, potrebbero sommergerci); e, soprattutto, ponga fine al famelico balletto di statisti fasulli o dimezzati, capi tribù camuffati da sindaci, capibanda spacciati per poliziotti, guardie costiere fratelli degli scafisti, generali con medaglie di latta.
Ammettiamolo: è un’idea naif riportare ordine in quell’inferno per ragioni di banale umanità o per offrire un ubiconsistam politico alla triste Europa dei Pil cui ci siamo assuefatti. Facciamolo allora per interesse economico (ce n’è a iosa attorno ai pozzi di petrolio) o per strategia securitaria (i jihadisti già sguazzano nel caos). Francia e Italia invece competono per interposta fazione (ha ragione Gilles Kepel nell’intervista al nostro Lorenzo Cremonesi) alimentando la crisi. O meglio, sia detto senza ombra di sciovinismo, Emmanuel Macron ha deciso di portare a termine, sponsorizzando il generale Haftar e le sue mire di potere, l’operazione iniziata sette anni fa da Nicholas Sarkozy con il primo intervento. A nostre spese. E a spese della legalità formale, tutta dalla parte del premier Al Sarraj, il quale, sostenuto da noi assieme alla comunità internazionale, resta a tutt’oggi il nostro unico successo diplomatico nella regione. Così si spiega la marcia della famigerata Settima Brigata verso Tripoli. E l’assedio non solo diplomatico al nostro ambasciatore Giuseppe Perrone di cui Haftar ha chiesto la cacciata mal sopportandone il prestigio a sostegno di Sarraj e il sacrosanto scetticismo su elezioni da tenersi in Libia il 10 dicembre. Siti vicini ai francesi hanno ventilato la sua rimozione decisa dal nostro governo per ingraziarsi Haftar (ipotesi poi smentita). Di fatto Perrone non è in sede ma «in vacanza» all’estero: un basso profilo prudente, anche in vista della conferenza da noi organizzata a Sciacca per novembre e che, in assenza di Haftar e contro i francesi, si ridurrebbe a un convegno di studi. In ballo però c’è molto più di un prestigioso appuntamento multilaterale. E proprio Macron, che si presenterà alle elezioni del 2019 come paladino del fronte europeista, dovrebbe saperlo. Passare divisi la linea d’ombra di Tripoli sarebbe l’ultimo decisivo regalo a chi vuole cambiare l’Europa in modo nuovo eppure antico: serrandone le saracinesche e gli spiriti.