Meloni ha credito sia all’interno che all’estero. Ma cosa farà di questo tesoro? Può «attendere» o «agire»
Giorgia Meloni è la personalità politica «più potente d’Europa», scrive la stampa internazionale. È una «donna coraggiosa», dice il presidente argentino Javier Milei. È «fantastica, una leader», conferma quello americano Donald Trump. È intestato a lei il numero di telefono che oggi deve chiamare chiunque voglia parlare con l’Europa, visto che i governi di Parigi e Berlino sono deboli, o moribondi.
Ma di tutto questo ben di Dio, potenza, coraggio, leadership, opportunità storica, un patrimonio di cui qualsiasi governante sogna di poter disporre anche per una stagione sola, che cosa intende farsene la nostra premier?
La domanda non è peregrina, a poca distanza dal giro di boa della legislatura. Finora, e con suo merito, Giorgia Meloni ha scelto la prudenza e il senso di responsabilità. Le sue due vere, grandi opzioni sono state in continuità con il predecessore Draghi. La prima: sostenere l’Ucraina senza se e senza ma, mettendosi al centro dell’Europa che respinge i piani neo-imperiali di Putin. La seconda: tagliare le tasse sul lavoro, ampliando e rendendo permanente la riduzione del cuneo fiscale. Il corollario di queste due scelte, non scontato per chi veniva da un passato populista e ha un alleato come Salvini, è stata la decisione di non sfasciare i conti pubblici, rilanciando così la credibilità del nostro Paese.
Il bilancio Giorgetti-style è stato approvato a pieni voti a Bruxelles, mentre sono stati rimandati o bocciati quelli dei Paesi «frugali» per eccellenza, i falchi dell’austerità Germania e Olanda.
Perciò Giorgia Meloni vive da due anni in un felice limbo: è apprezzata da chi temeva un inferno di autoritarismo e di anti europeismo (ricordate «è finita la pacchia»?), che invece non c’è stato; ma è tuttora la speranza di chi si aspetta il paradiso di una società più giusta e con meno disuguaglianze, che non c’è ancora. Nel limbo, come si sa, non si scontano pene, e questo spiega la finora inscalfibile popolarità di Giorgia Meloni: sono rari i governi che a due anni dall’inizio del mandato abbiano più o meno lo stesso consenso con cui erano partiti.
Ma adesso? Dove porta la strada che, con uno slogan di involontaria reminiscenza togliattiana, è stata definita ad Atreju «la via italiana»? Quale può o deve essere l’ambizione di una leader che ha superato la prova di maturità, e ora gode delle migliori circostanze storiche?
Ci sono due strategie possibili: attendere o agire. Attendere sulla riva del fiume le elezioni tedesche, la fine della lunga crisi del modello francese, le scelte che farà Trump su dazi e guerre. Oppure intraprendere adesso un’iniziativa che ci renda davvero leader di una nuova Europa. Per esempio: provare a costruire una coalizione di Stati per la difesa europea e il debito comune nelle spese militari, che sono oggi il tema esistenziale per la Ue.
E ancora: attendere che si avviti la nostra crisi industriale, un declino strutturale che sta cambiando la faccia dell’economia nazionale, sempre più retta da turismo, servizi ed edilizia, e sempre meno da produttività, ricerca e innovazione? Il Paese galleggia, ha scritto il Censis, l’occupazione cresce, si è vantata la premier. Ed è vero. Ma la quota del nostro apparato industriale sul Pil è oggi molto inferiore a prima del Covid. Siamo una nazione ricca, ma con salari bassi, più bassi della media europea, e quasi sei milioni di poveri.
Oppure agire, riducendo la pervasività e gli sprechi di uno Stato che Giorgia Meloni stessa ha appena definito «elefantiaco», attaccando la spesa improduttiva e gli sconti fiscali, e dunque il debito pubblico? Il governo si è impegnato con Bruxelles a portare entro il 2028 l’avanzo primario a un surplus del 2%. In questo secolo è riuscito solo a Mario Monti nel 2012. I maligni dicono che non a caso la data è stata fissata nella prossima legislatura. Ma una leader con l’ambizione di rivincere le elezioni dovrebbe comportarsi già oggi come se toccasse a lei raggiungere un tale traguardo. Comporterebbe scelte anche dolorose sul piano del consenso. Ma così risparmieremmo una massa di interessi da pagare, a vantaggio degli investimenti da fare.
Salute e istruzione ne hanno bisogno. Sono oggi gli indicatori del grado di civiltà e della capacità di competere di una nazione, e non sarà una schermaglia polemica con l’opposizione sulle cifre a convincere gli italiani che le cose vanno bene in quei due campi. Perché non vanno bene. I 41 miliardi di euro l’anno che i cittadini spendono di tasca propria per curarsi, quel 7,6% che rinuncia alle cure perché le liste d’attesa sono troppo lunghe e il bilancio familiare è troppo stretto per potersele pagare; il numero degli studenti di scuola superiore, poco meno della metà, scarsi in italiano e matematica, mentre sull’istruzione investiamo meno di quanto spendiamo per gli interessi sul debito: tutti i dati ci dicono piuttosto che non si possono lasciare le cose come stanno, perché andranno presto peggio. Draghi calcola che se continua così, con il tasso attuale di crescita della produttività, in 25 anni l’economia continentale avrà le stesse dimensioni di oggi, ma dovrà affrontare una spesa per le pensioni, l’energia e la digitalizzazione enormemente accresciutasi. Vale a maggior ragione per noi.
C’è da agire. E sarebbe davvero un peccato sprecare in scaramucce retoriche o battaglie di propaganda, come troppo spesso accade, quel capitale di credibilità internazionale e di consenso interno che regalano oggi a Giorgia Meloni l’opportunità unica di metter mano all’Italia.