Fonte: Corriere della Sera
di Angelo Panebianco
È giusto augurarsi che, finita la campagna elettorale, con le sue risse, con i suoi finti scontri di civiltà, diventi possibile, di tutto ciò, ragionare pacatamente. L’acritica e talvolta ottusa difesa di pratiche europee sbagliate ha finito per alimentare, involontariamente, l’antieuropeismo
Se ci si ferma all’apparenza (ma le cose, vedremo, sono più complicate di così) non c’è partita. Chi riesce a mobilitare più e meglio le emozioni, colui che riesce a parlare al cuore e alla pancia degli elettori, è in grado di sconfiggere chi si appella al ragionamento. A volte, ciò accade persino quando alcuni amici discutono fra loro in un salotto. Figurarsi se stiamo parlando di una campagna elettorale. Se ascoltiamo i discorsi contrapposti degli europeisti e dei sovranisti/nazionalisti (in quanto tali in polemica con l’Europa attuale) risulta chiaro che i secondi battono agevolmente i primi quanto a capacità di mobilitare le emozioni. Senti gli europeisti dire agli elettori che abbiamo bisogno di un’Europa più unita e più forte se noi europei vogliamo poter «contare» nel mondo (vero: ma su quanti elettori, che non siano già convinti per conto loro, potrà mai fare breccia un argomento simile?) oppure li senti sostenere che se verremo emarginati dai nostri partner europei pagheremo un conto economico salatissimo (vero, ancora una volta: ma chi lo dice non si accorge che la parte avversa può facilmente ritorcergli contro le sue parole). I sovranisti/nazionalisti hanno, infatti, buon gioco a sconfiggere l’opposta propaganda.
I sovranisti/nazionalisti fanno ricorso al più potente strumento di mobilitazione delle emozioni che si conosca: la costruzione del capro espiatorio. Individuare qualcuno o una qualunque entità come la causa dei mali che ci affiggono ha un doppio indiscutibile vantaggio: permette alle persone di indirizzare contro quel qualcuno o quell’entità la loro energia emozionale repressa, nonché di attribuire ad altri, anziché a se stessi, la responsabilità di quei mali. L’Europa è il tiranno contro cui sfogare frustrazioni e rabbia. In apparenza dunque, fra le due fazioni non c’è partita.
Però, se si osservano le cose più da vicino, si scopre che tutto è assai più complicato. Forse perché consapevoli del deficit di emotività che grava sui ragionamenti pro Europa, persino in una campagna elettorale così importante per le sorti dell’Unione, molti europeisti (non tutti ma molti sì) hanno preferito parlar d’altro, ossia, come al solito, di politica interna. La ragione è ovvia: se ci si scontra sui temi nazionali anche gli europeisti di cui sopra possono più facilmente mobilitare le emozioni contro il nemico (in questo caso, interno), anche loro possono giocarsela in termini di capri espiatori, tiranni, eccetera.
Il risultato di tutto ciò è che la propaganda sovranista/nazionalista non è stata riequilibrata da un’altrettanto efficace propaganda di segno contrario. Forse non è solo un problema di tattiche e strategie elettorali. Forse c’è qualcosa di più. Forse c’è il fatto che, più o meno confusamente, gli europeisti, o almeno una parte di loro, si rendono conto che il sovranismo/nazionalismo è una risposta sbagliata (sbagliatissima: nella più rosea delle ipotesi, porta in un vicolo cieco) a problemi veri, reali, quei problemi che gli europeisti, colpevolmente, per decenni, hanno cercato di nascondere sotto il tappeto.
Ad esempio, come ha argomentato Federico Fubini nel suo Per Amor proprio(Longanesi editore), nel caso dell’Italia, la trentennale insistenza sull’Europa come «vincolo esterno» – il vincolo che doveva servire ad emendarci dei nostri vizi – ha avuto una doppia, negativa, ricaduta: ha trasmesso a tanti l’idea che fosse lecito parlare dell’Europa come di una entità esterna, distinta dall’Italia (come se noi stessi non fossimo, come invece siamo, a pieno titolo, europei) e ha posto le premesse perché i sovranisti/nazionalisti usassero lo stesso argomento, questa volta in chiave antieuropea: l’Europa come ostacolo, come ciò che ci impedisce di ottenere la felicità. L’argomento del vincolo esterno, insomma, è risultato un boomerang.
Italia a parte, l’elenco delle cose che in Europa non funzionano e che sono state nascoste per molto tempo è, purtroppo, lungo. Si pensi a quanto sia stata sistematica la violazione del principio di sussidiarietà (alle istituzioni europee dovrebbe competere solo ciò che gli Stati nazionali non possono fare) sempre affermato in teoria e sempre negato in pratica. O si pensi a quanto danno abbia fatto quella forma di retorica europeista che preferiva negare l’inevitabile persistenza degli interessi nazionali rendendo così difficile individuare, nel momento in cui quegli interessi hanno cominciato a divergere, gli strumenti utili per renderli di nuovo compatibili. O si pensi a quanto sia stato sbagliato per tanto tempo fingere che gli argomenti dei britannici a favore di una Europa economicamente più liberale e meno dirigista non avessero, in quanto tali, alcun valore, fossero liquidabili come semplici espressioni del loro tradizionale euroscetticismo. Brexit non sarà un disastro solo per i britannici. Quali che ne siano i contraccolpi economici, Brexit è anche, per l’Europa, una sconfitta culturale e politica: la priva di una voce meno statalista e più liberale di quelle dominanti. Si pensi, infine, alla rimozione, tipica di un certo europeismo, di quanto abbia pesato, sulle sorti della Comunità europea prima e dell’Unione poi, il rapporto con gli Stati Uniti. Falsificare la storia, nel lungo periodo, danneggia chi lo fa. Così come, prima o poi, (sperabilmente) le falsificazioni sovraniste/nazionaliste si ritorceranno contro i loro autori, per ora constatiamo l’effetto boomerang di certa retorica europeista. Valeva davvero la pena di raccontare in giro la favola secondo cui la pace qui da noi, dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi, sarebbe esclusivo merito dell’Europa e delle sue istituzioni? Dopo di che, arrivano quelli per i quali le libertà degli europei non corrono alcun rischio se si sostituisce un’alleanza con la Russia a quella con l’America.
È giusto augurarsi che, finita la campagna elettorale, con le sue risse, con i suoi finti scontri di civiltà, diventi possibile, di tutto ciò, ragionare pacatamente. L’acritica e talvolta ottusa difesa di pratiche europee sbagliate ha finito per alimentare, involontariamente, l’antieuropeismo. Forse, si può fare di meglio.