Fonte: Corriere della Sera
di Guido Santevecchi
Da Pechino, i politici la guardano con sospetto, la mettono già in guardia a non osare, perché Tsai Ing-wen vuole mantenere la sovranità di Taiwan. E forse anche perché i grigi dirigenti non sono abituati a negoziare con una signora cinese: tra i 25 membri del Politburo del Partito comunista ci sono solo due donne, su poltrone di seconda fila; tra i 205 del Comitato centrale le compagne sono meno del 5%, una percentuale più bassa di cinquant’anni fa, ai tempi di Mao e delle sue poetiche frasi sull’altra metà del cielo. E per non sbagliare, perché alla vigilia dell’8 marzo l’anno scorso la polizia di Pechino ha fatto una retata tra le attiviste dei diritti femminili: chiedevano solo giustizia contro le violenze sessuali e gli abusi subiti in famiglia, per le autorità «causavano turbamento dell’ordine». Ma ora la piccola Taiwan, regione ribelle secondo la vecchia definizione di Pechino, ha una presidentessa e le femministe cinesi l’hanno già eletta a modello.
«La vittoria di Tsai è una fonte di grande incoraggiamento per tutte noi sul continente, un esempio di partecipazione alla politica», ha detto da Pechino Zeng Jinyan, attivista e scrittrice. Zeng propone anche collaborazione e scambi tra femministe continentali e isolane. E qui viene un’altra sfida per la nomenclatura della Cina, che pretende di gestire il dialogo con Taiwan solo a livello di rapporti (di forza) commerciali e politici. Un dialogo tra esponenti della società civile femminile dei due Paesi porterebbe invece ad aprire il capitolo dei diritti.
Un’altra caratteristica incoraggiante nella vittoria di Tsai è nel suo non essere figlia di una dinastia politica. Viene da una famiglia borghese, con il padre convinto che la figlia dovesse essere il sostegno della sua vecchiaia. E invece lei ha vinto borse di studio, ha completato master all’estero, ha insegnato diritto e poi è entrata in politica. Non ha sempre vinto. Nel 2012 fu sconfitta alle elezioni e disse ai sostenitori delusi: «Potete piangere stanotte, ma non perdete la speranza». Ecco perché anche le femministe di Pechino sono con lei.