Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Franco
Gentiloni sa di avere l’appoggio e la fiducia del capo dello Stato, Sergio Mattarella. Il problema è quanto il suo stesso partito gli permetterà di consolidare questa nuova identità
È un esecutivo di sopravvivenza, con tutti i limiti e le potenzialità che questo implica. L’ambizione e il compito di Paolo Gentiloni saranno quelli di suturare le ferite lasciate dal referendum del 4 dicembre e da mesi di scontro con le opposizioni; e accompagnare l’Italia al voto, nel 2017 o l’anno dopo. Le capacità di mediazione del nuovo premier sono riconosciute da tutti, e Gentiloni sa di avere l’appoggio e la fiducia del capo dello Stato, Sergio Mattarella. Il problema è quanto il suo stesso partito gli permetterà di consolidare questa nuova identità.
La lealtà a Matteo Renzi è perfino troppo sottolineata dalla lista dei ministri: quasi una fotocopia del suo esecutivo, con l’ex ministro alle Riforme, Maria Elena Boschi, solo in apparenza «declassata» a sottosegretario a Palazzo Chigi. Ma il Pd non sembra affatto pacificato. E il segretario si prepara a riaffermare il primato su un partito in ebollizione, scottato dalle sconfitte. Soprattutto, non è pacificata l’Italia. Le opposizioni rimarcano una compagine schiacciata sul «fronte del Sì», dopo avere fatto di tutto perché nascesse proprio così.
Movimento 5 Stelle e Lega si preparano a sfruttare ogni occasione per delegittimare il governo, forti della vittoria dei No e dell’oggettivo indebolimento della maggioranza; e a presentarlo come subalterno a un’Europa bersagliata con livore demagogico. Ma la Ue appare ansiosa di aiutare Gentiloni e l’Italia, dopo gli scarti e le incomprensioni degli ultimi mesi. Le prime reazioni lasciano capire che il nuovo governo sarà accolto a Bruxelles a braccia aperte, nella convinzione di rinsaldare la sintonia di sempre: una tradizione un po’ appannata durante la campagna referendaria, quando Palazzo Chigi sperava di recuperare voti del M5S e di centrodestra anche polemizzando tatticamente con Bruxelles.
Il profilo è basso, e non poteva essere che così. Risente dell’esigenza di tacitare le spinte correntizie tornate a galla nella maggioranza del Pd. E il no delle opposizioni a entrare nel governo restituisce numeri parlamentari avari, che trasformano ogni partitino in un possibile dominus della sua sopravvivenza. Eppure, l’irrigidimento a sorpresa di Denis Verdini contro un «governo fotocopia» non è bastato a fargli concedere ministri. Per ora il vero regista rimane Renzi, il quale non fa nulla per nasconderlo. Ma sarebbe un errore raffigurare Gentiloni come un amministratore delegato a tempo, in attesa del ritorno in tempi brevi di quello «vero». Uno schema del genere sa di forzatura.
Sottovaluta quanto è successo il 4 dicembre. Proietta la continuità che il governo esprime in un futuro dai contorni estremamente incerti: quasi si potesse tornare in modo automatico a un passato interrotto bruscamente e ingiustamente. In più, rischia di relegare in secondo piano le emergenze che l’Italia deve affrontare, e di cui la legge elettorale è soltanto l’elemento più vistoso e citato. I prossimi mesi diranno che si tratta di questioni drammatiche, di fronte alle quali evocare elezioni anticipate risulterà azzardato fino alla temerarietà: a meno che non si voglia regalare Palazzo Chigi a Beppe Grillo. Il governo Gentiloni viene presentato come una parentesi aperta dal Pd, che il partito di Renzi potrà chiudere a piacimento. In realtà, già lo stile dimesso del premier segna una cesura col passato. Sarà interesse di tutta la maggioranza accentuarla, se vuole non solo mantenere il contatto col quaranta per cento degli italiani che hanno votato Sì, ma recuperare credibilità agli occhi della vera maggioranza del Paese: quella che, dopo avere bocciato Renzi, pretende dal sistema politico una coda di legislatura improntata al senso di responsabilità, a fatti concreti, e allo sforzo vero di restituire all’Italia un simulacro di unità nazionale.