22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Maurizio Ferrera

L’ultimo decennio ha sottoposto la Ue ad una sequenza davvero inedita di choc finanziari, economici e sociali


La scelta di chi andrà ad occupare le più alte cariche Ue è uno dei momenti più delicati del processo politico europeo. L’esito dipende dai rapporti di forza fra governi e fra i gruppi partitici nel nuovo Parlamento, il quale dovrà approvare le proposte del Consiglio. Il toto-nomi quotidiano distoglie però l’attenzione dalle domande davvero rilevanti per i cittadini: che cosa cambierà per la strategia dell’Unione europea nel suo complesso? Le figure prescelte (le loro idee, la loro esperienza e competenza) saranno all’altezza delle sfide?
L’ultimo decennio ha sottoposto la Ue ad una sequenza davvero inedita di choc finanziari, economici e sociali. Il cosiddetto «modello europeo» è stato scosso nelle sue fondamenta. A testimoniarlo sono due profonde fratture che oggi lo attraversano. La prima passa all’interno dei vari Paesi e riguarda le diseguaglianze. Quelle fra i ceti più abbienti e i ceti più vulnerabili, innanzitutto. Ma anche quelle fra giovani e anziani: i primi (compresi i bambini) sono oggi il gruppo più a rischio di povertà.
La seconda frattura corre lungo i confini territoriali e contrappone gli Stati membri economicamente più forti a quelli più deboli. La divergenza si è ampliata nel tempo ed è particolarmente marcata fra Nord e Sud. Anche i Paesi dell’Est iniziano a risentire le conseguenze del depauperamento di capitale umano dovuto alla «fuga» dei propri lavoratori verso la vecchia Europa.
La Ue ha retto i colpi dello choc finanziario: un esito che non appariva scontato nei momenti più drammatici della crisi del debito, a cavallo fra il 2011 e il 2012. Il rischio di naufragio ha tuttavia suscitato risentimento e sfiducia reciproca fra i vari governi. La logica degli interessi nazionali ha così indebolito gli sforzi per riparare e irrobustire la casa comune, correggendo i suoi difetti di costruzione. La doppia frattura (soprattutto quella fra Paesi) è anche il frutto di serie lacune nei meccanismi di governance macroeconomica e sociale dell’Unione, in particolare dell’eurozona.
Lo scorso 20 giugno, i capi di Stato e di governo hanno definito un’agenda di priorità e orientamenti per il prossimo quinquennio. Il rilancio del modello europeo figura come obiettivo centrale. Si parla di crescita e occupazione, di sicurezza e protezione dei cittadini, di sostenibilità ambientale (una saggia aggiunta, considerando le sfide del cambiamento climatico). Sui temi sociali, l’agenda si sofferma essenzialmente sulla prima frattura. È importante che diseguaglianze e povertà vengano considerate dal Consiglio una patologia, un rischio non solo economico e sociale ma anche politico. Preoccupa però la reticenza in merito alle divergenze fra Paesi. Se non si ricuce anche questa seconda frattura, l’Unione (e con essa il modello europeo) non potranno sopravvivere a lungo.
L’economia sociale di mercato — ossia il connubio fra libera concorrenza e welfare, nel quadro dello stato di diritto e della democrazia — è un sistema che non può essere «spacchettato» a piacimento. L’eurozona ha unificato mercati e monete, ma ha lasciato il welfare sotto la responsabilità dei singoli Paesi. La protezione sociale rischia di trasformarsi in una semplice ancella degli imperativi fiscali e di competitività.
Verso la fine del XIX secolo, l’Europa inventò un principio rivoluzionario: la condivisione di alcuni rischi (vecchiaia, invalidità, disoccupazione, disabilità, malattia) fra gruppi occupazionali e aree territoriali, in modo da garantire protezione e coesione senza compromettere la logica di mercato. Le assicurazioni sociali furono una risposta geniale alle sfide della rivoluzione industriale e della democrazia di massa. La Ue deve oggi applicare a se stessa il medesimo principio, inaugurando forme di condivisione collettiva di quei rischi che sono strettamente legati alla partecipazione all’euro o alla Ue in generale: ad esempio l’occorrenza di improvvisi choc occupazionali o migratori che colpiscano uno o più Paesi in modo asimmetrico.
Negli anni passati, i progressi in questa direzione sono stati bloccati da resistenze e incomprensioni fra governi. Si è spesso sentito dire che i cittadini (gli elettori, i contribuenti) dei vari Paesi non sarebbero pronti a «condividere». Non è così. A segnalarlo non sono solo i sondaggi di opinione, ma anche i programmi elettorali di quei partiti che oggi si apprestano a formare la nuova maggioranza del Parlamento europeo: socialisti e democratici, verdi e, seppur più timidamente, popolari e liberali. L’enfasi sulle questioni sociali e sulla necessità di solidarietà paneuropea è stata la più alta di sempre. Persino i sovranisti parlano di condivisione, anche se la vogliono in sfere diverse (Salvini per l’immigrazione, Orbán per le politiche di coesione).
Il banco di prova delle figure che presiederanno le istituzioni sovranazionali nei prossimi cinque anni sarà proprio il contrasto delle divergenze fra Paesi. La condivisione dei rischi comuni è stata uno dei pilastri portanti del modello europeo novecentesco, nelle sue declinazioni nazionali. È giunto il momento di usare questo pilastro a sostegno del processo d’integrazione in quanto tale. Il «modello Ue» non può più farne a meno.

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