Dalla Cecenia alla Georgia, gli interventi militari di Mosca dalla caduta dell’Unione sovietica all’invasione dell’Ucraina
Trent’anni di storia, diciannove conflitti. Un intervento militare ogni diciotto mesi. Quando si dice che la Guerra Fredda finì con la morte dell’Unione Sovietica, bisogna aggiungere che la nascita della Russia ha comportato decine d’altre guerre congelate o al calor bianco. Dichiarate, segrete, mascherate, per procura. Ufficialmente, tutte mosse dal desiderio di restaurare l’orgoglio imperiale, di sedare scontri fra etnie, di proteggere minoranze russe, d’instaurare governi amici.
«Abbiamo sempre un’adeguata risposta militare a qualsiasi avventurismo«, ricordò Vladimir Putin un giorno del 2015, conversando d’Ucraina con Angela Merkel. E la Cancelliera capì bene a che cosa si riferisse: che stia a simboleggiare la vittoria («Za Pobedy»), la pace («Za Mir») o il popolo («Za Nashikh»), la «Z» bianca dello Zar che oggi i soldati di Putin portano sui blindati e sulle divise è la sintesi – perfetta – delle motivazioni che hanno sempre spinto Mosca a organizzare le sue «operazioni militari speciali». Pura propaganda, naturalmente: in Georgia, i russi andarono per aiutare i fratelli osseti minacciati di genocidio, in Cecenia per difendere la cristianità dall’Islam, in Kazakistan per riportare l’ordine sociale. Ovunque, sono regolarmente corsi a chiarire che (sempre parole del leader) «nessuno deve avere l’illusione di poter ottenere una superiorità militare sulla Russia, di poterci mettere un qualche tipo di pressione».
In principio fu la Georgia. Quando due mesi dopo la dissoluzione dell’Urss, all’alba dell’era Eltsin, comincia a rumoreggiare la regione filorussa dell’Ossezia del Sud. È l’inizio d’una guerra civile che dura tre anni, fra i sostenitori del presidente eletto e di quello imposto, coi separatisti osseti che non accettano il nuovo corso di Tbilisi e nel febbraio 1992 ottengono i primi, sporadici appoggi militari di Mosca: l’Orso s’è svegliato, le cancellerie mondiali prima si stupiscono e poi s’allarmano, e pur d’evitare uno scontro aperto con la Russia suggeriscono alla Georgia d’accettare subito una tregua, sottoscrivendo il «pattugliamento» delle truppe russe. È la prima missione all’estero del nuovo Cremlino de-sovietizzato.
Pochi mesi, ed ecco esplodere anche l’altra regione separatista, l’Abkhazia: è una guerra in cui Eltsin si dichiara neutrale, alternando però proposte di negoziato a un vero sostegno bellico agli abkhazi. «Guerra moldo-russa» è invece il nome che, nel ’92, viene dato allo scontro in Transnistria fra le milizie cosacche armate da Mosca e il governo della neonata Repubblica di Moldova: una fulminea guerra che scoppia quasi in contemporanea con un’altra, nell’Ossezia del Nord-Alania, che farà 700 morti e spingerà la Russia a impegnare il più grande dei suoi contingenti, 1.500 uomini. Sono gli anni turbolentissimi d’un impero in frantumi. Del risveglio delle spaccature etniche, delle divisioni religiose, delle aspirazioni democratiche. E le operazioni militari del Cremlino servono, nella maggior parte dei casi, a tamponare braci d’odio che la repressione sovietica aveva tenuto sotto la cenere per più di settant’anni. Com’è nella guerra civile del Tagikistan, oggi dimenticata, ma che provoca cinque anni di devastazioni, quasi 50mila morti, l’esilio d’un tagiko su cinque: il primo conflitto aperto di Mosca, che sostiene la vecchia guardia post-sovietica, contro movimenti islamici organizzati e ispirati dal vicino Afghanistan.
Il primo Vietnam (o Afghanistan) russo è però la Cecenia. «La vergognosa avventura», com’ebbe a definirla l’ultimo leader sovietico, Mikhail Gorbaciov. «La follia allo stato puro», secondo le parole del cancelliere tedesco Helmut Kohl. Che nel suo primo round (1994-1996) si risolve in una sonora sconfitta e nel secondo (1999-2009) si trasforma in una feroce vittoria. La Prima guerra cecena si presenta come molte altre: in tutta l’ex Urss, c’è un 70 per cento d’etnie russe che deve vedersela con un centinaio d’altre nazionalità e con una miriade di repubblichette indipendenti. In Cecenia, la sfida è alla proclamata Repubblica di Ichkeria, 1.600 chilometri a sud di Mosca, che trascina Eltsin in una campagna militare fra le più sanguinose della sua storia. Centomila civili ammazzati, diecimila guerriglieri morti, e nessuno ha mai saputo quanti soldati russi: 5.500 (fonte ufficiale) o quindicimila? Da Pietro il Grande a Stalin, la Cecenia è sempre stata la spina nel fianco russo e questa guerra non fa eccezione, quando l’ex generale sovietico Dzochar Dadaev butta giù dalla finestra il capo locale del Partito comunista e si proclama primo presidente indipendente. La fronda interna, gli attentati, i tentati avvelenamenti non danno risultati e nemmeno quelli che Eltsin spera siano solo «attacchi chirurgici»: il conflitto degenera in una bolgia di missili, prese d’ostaggi, scudi umani, diserzioni, gas, decapitazioni e crimini di guerra assortiti. I ceceni e i vicini ingusci chiamano a raccolta jihadisti da mezzo mondo, molto più motivati delle reclute russe e di un’opinione pubblica che a Mosca è sempre più contraria alla carneficina: «Sarà un bagno di sangue, un altro Afghanistan», prevede prima di dimettersi un viceministro della Difesa, Boris Gromov, e la sua si rivela una profezia facilissima. Su Grozny s’abbatte, nel 1995, la peggiore pioggia di bombe in Europa dai tempi della Seconda guerra mondiale e di Dresda: 35mila civili uccisi, cinquemila dei quali bambini. Le ferita cecena è l’emorragia di Eltsin.
Mentre la repubblica indipendente precipita in un triennio d’anarchia, razzie, mafie locali, rapimenti e regolamenti di conti, a Mosca comincia il countdown. E quando uno Eltsin azzerato dall’alcol e nei consensi consegna il Cremlino a Putin, nell’estate 1999, il primo pensiero del nuovo Zar è chiudere i conti con la Cecenia, col Dagestan (la prima campagna militare di Mad Vlad, vinta in meno d’un mese), con l’Inguscezia e con quanti hanno minato l’orgoglio imperiale. La Seconda guerra cecena è un deserto che Putin, a tutt’oggi, chiama pace: una tempesta di fuoco martellante e senza sconti; una prima linea sceltissima di Spetsnaz, corpi speciali molto più preparati dei fantaccini di Eltsin; un’impotente resistenza di guerriglieri che ci provano solo con ii kamikaze e gli assassinii mirati; un nuovo attacco a Grozny, così devastante da spingere l’Onu a definirla «la città più devastata del mondo». Oggi in Cecenia c’è una dittatura zitta e Mosca, obbediente e fedele, dove sono stati aboliti sia l’incarico di primo ministro, sia i diritti civili. Qualcuno ricorda ancora che la Seconda guerra cecena cominciò nel ’99 – Putin s’era insediato da un mese – con una strana serie d’attentati a Mosca e nelle città russe. Qualcuno non dimentica che la giornalista Anna Politkovskaja e l’ex spia Alexander Litvinenko rivelarono come ci fosse l’Fsb, l’ex Kgb, dietro quegli attentati. Anna e Alexander, li ammazzarono: e chi parla più della Cecenia, ormai?
C’è una parola che torna sempre nei discorsi di Putin: Kosovo. L’ha pronunciata per giustificare l’intervento a sostegno delle repubbliche russofile del Donbass, come la pronunciò nel 2008 prima d’entrare in Georgia. In Kosovo, i russi c’erano: furono i primi a entrare a Pristina, più veloci degli americani a piantare bandiera su una vittoria che non era la loro. Ma il Kosovo è sempre stata l’extra-dose di sale sull’orgoglio ferito di Mosca: l’indipendenza strappata a un Paese slavo e fratello, la Serbia, un riconoscimento che l’Occidente concesse senza chiedere troppi pareri in giro, men che meno al Cremlino. «Interveniamo in Georgia a sostegno dei russofoni – dice Putin nell’estate del 2008 –, esattamente come la Nato è intervenuta in Kosovo in aiuto degli albanesi». La prima guerra del XXI secolo è rapidissima, fa seguito al bombardamento di Tbilisi sull’Ossezia del Sud (centinaia di morti) e all’accendersi delle ostilità anche in Abkhazia. Sei giorni, e la mediazione francese di Sarkozy ferma i tank russi a pochi chilometri dalla capitale georgiana. Un mese, e la Russia (unica al mondo) riconosce le repubbliche osseta e abkhaza, quel che già fece per la Transnistria: «Ho copiato la soluzione Kosovo», chiude Putin.
Quante divisioni ha Mad Vlad? Viene da chiederselo, ripercorrendo tutti gl’interventi armati di questi decenni, dalla contesa del Batken fra kirghizi e tagiki (1999), agli scontri etnici nel sud del Kirgizistan (2010). Perché c’è stata anche la guerra all’Isis nel Caucaso settentrionale (209-2017), quasi 4mila morti e lo smantellamento dell’Emirato che voleva portare il jihad anti-russo dall’Azerbaigian alla Cabardino-Balcaria. Per non dire dell’alleanza in Siria al fianco di Assad, prima con gli attacchi aerei e poi con le truppe sul campo. Undici anni di guerra, 400mila morti, undici milioni di profughi: fu grazie a Putin che il dittatore di Damasco, ormai allo stremo, riuscì a ribaltare il fronte e a ricacciare fazioni ribelle e jihadisti. Quante divisioni ha Putin, dunque? La comparsa dei mercenari del Gruppo Wagner ha spiegato molte cose: Mosca li schiera un po’ ovunque, dalla Crimea alla Libia, dal Mali al Centrafrica, consiglieri militari senza bandiere e senza mostrine, «omini verdi» che esonerano il Cremlino dall’onere di dichiarare perdite e sconfitte, ma intanto preparano il terreno a (eventuali) interventi più massicci. Li fece esordire in Ucraina, nel 2014, quando invase Sinferopoli e Sebastopoli senza sparare un colpo, per preparare l’invasione di oggi dei soldati con la Z. Stava per mandarli in Kazakistan a gennaio, quando la folla inferocita ha cacciato il dittatore filorusso Nazarbayev. Poi ci ha ripensato: meglio usare le truppe regolari. In Kazakistan è stato un blitz, una decina di giorni, per chiudere veloci la pratica. Sbrigarsi, fu l’ordine perentorio agli omini con la «Z»: c’era solo un mese di tempo, per invadere l’Ucraina.