La guerra della Russia all’Ucraina sta assumendo i caratteri di uno «scontro di civiltà»
Nata con giustificazioni geopolitiche (l’espansione della Nato) o etnico-nazionali (la sorte della minoranza russofona), la guerra all’Ucraina sta assumendo i caratteri di uno «scontro di civiltà». Sembra di essere tornati alla profezia del 1996 di Samuel Huntington: in un libro sostenne che la Guerra Fredda sarebbe stata sostituita da nuovi conflitti fondati sulle identità religiose e culturali. Lo scontro tra l’Islam radicale e l’Occidente ne fu una clamorosa conferma. Lo sarà anche quello in corso tra Occidente e Russia?
I protagonisti stessi ne sembrano convinti. Da un lato Stati Uniti ed Europa rimproverano a Mosca di disprezzare l’etica universalistica di libertà e democrazia, e Biden accusa Putin di essere «un dittatore omicida e criminale». Dall’altro l’autocrate russo si appella invece all’ethos della nazione, come nella sua invettiva contro la «quinta colonna» interna che preferisce l’Occidente alla Madre Russia, e presenta una teoria quasi antropologica del patriottismo: c’è gente — ha detto — che tradisce per ostriche, fois gras e «libertà di gender». Il patriarca Kirill era andato anche oltre: per lui in Ucraina si combatte per non sottomettersi al dominio del peccato, e come esempio della corruzione occidentale ha additato «le sfilate dell’orgoglio gay».
In tutte le epoche i contendenti hanno provato a «sacralizzare» la loro guerra, a presentarla come la lotta della «civiltà contro la barbarie» (i francesi nella Grande Guerra) o a contrapporre «lo spirito da eroe» del tedesco a quello «da commerciante» dell’inglese. Ma più radicale sembra oggi la differenza tra Occidente e Russia. Il primo concepisce infatti la società come un «meccanismo», qualcosa da far funzionare razionalmente e al meglio possibile, per garantire la libertà degli individui di condurre la vita che credono. Mentre nella retorica del Cremlino si sente l’eco di un’idea della nazione come «organismo vivente», che persegue un’unica finalità radicata nella sua storia. In questa concezione «l’unità spirituale di un popolo è qualcosa che ne permea tutte le manifestazioni, anche le più alte come la religione, l’arte e la filosofia». E dunque anche la vita degli individui. La Russia si sente a tal punto un organismo vivente, e non solo una mera astrazione politica, che «sputerà fuori bastardi e traditori come moscerini finiti nella gola»: parola di Vladimir Putin.
Credo che così si possa capire meglio anche perché da noi c’è chi simpatizza con lui. Frange non piccole delle società occidentali si dichiarano stanche di sentirsi ingranaggi nel «meccanismo» della modernità, per quanto razionale e liberale possa essere, fatta di tecnica, scienza, finanza e democrazia; e hanno invece nostalgia di un mondo fondato sulla comunità, sulla sua unità spirituale e mistica, una nazione fatta di «sangue e suolo».
Si tratta di due filoni di pensiero, l’uno erede dell’Illuminismo l’altro del Romanticismo, entrambi presenti nella cultura europea, di cui del resto la Russia fa parte a pieno titolo. Molti dei comportamenti di Putin si spiegano meglio, senza improbabili letture psicoanalitiche, proprio alla luce di questa concezione della Russia e del suo posto «speciale» nel mondo. L’espansionismo, per esempio. Il despota non è folle: è ciò che la Russia è sempre stata. Molto tempo prima che nascesse la Nato, «la Russia aveva già un’autocrazia, aveva già la repressione, aveva già il militarismo, diffidava già degli stranieri e degli occidentali», come ha detto lo storico Stephen Kotkin, massimo biografo di Stalin. Per secoli e secoli la Russia è riuscita ad espandersi a una media di cinquanta miglia quadrate al giorno, fino a coprire un sesto delle terre emerse del pianeta. Nessuna sorpresa dunque che Putin voglia riprendere la marcia interrotta dalla sconfitta dell’Urss nella Guerra Fredda e dal suo successivo disfacimento. Piuttosto a sorprendere e a preoccupare è la ripetizione di uno schema in cui le ambizioni si rivelano sempre maggiori delle capacità reali di cui questa debole grande potenza dispone.
La guerra all’Ucraina ne sembra un manuale. La Russia sta mostrando un grave deficit tecnologico, che ha finora bloccato l’avanzata sul terreno: hardware di tank e cannoni contro software di missili anticarro e droni, incapacità di assumere il controllo dei cieli, confusione logistica, ricorso all’unica tattica della distruzione di massa. Sta mostrando un deficit economico, visto che il debito russo è già a rischio default per mancanza di valuta pregiata, mentre grandi imprese internazionali, capitali e talenti, lasciano il Paese (Putin ce l’aveva con loro nel suo discorso). E sta perdendo la battaglia dell’immagine e della reputazione, perché la gente tifa sempre per Davide contro Golia, perché non c’è più l’ideale mondiale del comunismo a sostenerne la volontà di potenza, perché il capo nemico che doveva essere annientato parla ogni giorno in mondovisione ed è il leader più televisivo che guerra abbia mai visto.
Per questo è lecito pensare che Putin non potrà mai vincere la sua sfida. Potrà forse prendere le città che finora gli resistono. Potrà imporre la sua legge con la forza e la violenza, come si fa nelle colonie. Ma non riuscirà mai a rendere l’Ucraina quella non-nazione che lui dice che sia. Non riuscirà mai a convincere gli ucraini che sono russi, perché non lo sono.
A noi occidentali spetta dunque il compito di aiutare la democrazia di Kiev a resistere, ma anche di resistere per parte nostra alla tentazione dello «scontro di civiltà». Dobbiamo fermare l’espansionismo della Russia di sempre, per poter convivere in pace un giorno nella casa comune del continente europeo. Ma dobbiamo ricordare che dentro la tragedia della Russia di oggi c’è anche il nostro passato. E dobbiamo sperare che modernità e razionalità non siano precluse alla Russia di domani.