Fonte: Corriere della Sera
di Paolo Mieli
Se si desidera che la legislatura attuale duri fino all’inizio del 2018, le si devono dare traguardi realistici credibili e ambiziosi in campi diversi da quello dei sistemi elettorali
Colpisce che entrambi gli schieramenti, centrodestra e centrosinistra, ritengano sia venuto il momento per riproporre le primarie. Quelli di destra non le hanno mai fatte e, per loro, potrebbe essere una bella esperienza, pur se realizzata fuori tempo massimo. Ma a sinistra sanno di cosa si tratta. Qui l’Ulivo si presentò nel 1996 come un soggetto unitario contrapposto al Polo delle Libertà e le primarie, dieci anni dopo, servivano ad indicare il candidato della coalizione alla guida del governo. Adesso, in assenza del ballottaggio, è ben difficile che un qualsiasi sistema elettorale possa produrre una maggioranza parlamentare autosufficiente. E quindi avrà un senso solo simbolico designare in anticipo il capo del governo.
Anche se tutti quelli del Pd restassero nel partito madre e riuscissero a portare dalla loro qualche gruppo confinante, appare assai ambizioso ritenere che quel partito o coalizione possa ambire a conquistare il 40%. Potrebbe legittimamente provarci e forse tra due o tre tornate elettorali anche riuscirci. Ma al momento quelli usciti dalle primarie sarebbero solo candidati di bandiera. Stesso discorso vale per il Centrodestra, per la Destra da sola e per i Cinque stelle. Diversa, dicevamo, sarebbe stata la situazione con una qualunque forma di ballottaggio, un sistema che però, prima ancora che dalla Corte Costituzionale, è stato abbandonato per strada da tutti coloro che per un trentennio ne avevano fatto la loro bandieraE’ stato sufficiente che i pentastellati prevalessero nei ballottaggi alle elezioni comunali perché schiere di politici e studiosi che fino al giorno prima unanimi ne avevano esaltato le virtù, smettessero anche di parlarne. E non è stato, ammettiamolo, uno spettacolo edificante.
Senza ballottaggio, i sistemi elettorali più o meno si equivarranno dal momento che, nell’Italia tripolare, finiranno per avere, più o meno tutti, effetti proporzionali. La trattativa per produrre un sistema nuovo di zecca o per armonizzare ciò che è passato attraverso il setaccio della Consulta rischia così di essere (o di apparire, che in politica è la stessa cosa) un espediente volto esclusivamente a guadagnare tempo. Ed è difficile immaginare che per dieci mesi si resti a fischiettare discutendo di vantaggi e svantaggi di questo o quel metodo d’elezione dei parlamentari (cosa che del resto si sta facendo da un’abbondante trentina d’anni). Perciò se si desidera che la legislatura duri fino all’inizio del 2018, le si devono dare traguardi realistici, credibili e ambiziosi in campi diversi da quello delle tecniche di voto. Altrimenti la vittoria delle forze antisistema, già probabile se si votasse a giugno, potrebbe, tra un anno, essere travolgente.
Quanto alle alleanze preelettorali, ne verranno escogitate di stravaganti per allargare ognuno il proprio bacino e trainare piccoli partiti che rischierebbero altrimenti di infrangersi sulla soglia di sbarramento: «coalizioni» tattiche, oltremodo friabili, destinate a dissolversi un attimo dopo l’ingresso in Parlamento come accadde per il patto tra Veltroni e Di Pietro nel 2008 e poi nuovamente, nel 2013, per quello tra Bersani e Vendola. Per non parlare dell’altro — altrettanto caduco, nello stesso 2013 — tra Pdl, Lega e Fratelli d’Italia. E’ andata così nell’ultimo decennio e adesso probabilmente andrà peggio dal momento che le alleanze vere, quelle destinate a dar vita al governo non verranno sottoposte agli elettori e si potranno fare solo in Parlamento, sulla base di alchimie in partenza inimmaginabili. Per giungere infine a qualcosa che con molta buona volontà ribattezzeremo Grande Coalizione ma che, lo si può stabilire fin d’ora, tale non sarà. Grandi Coalizioni possono dirsi solo quelle imperniate sui due più consistenti partiti rivali che stabiliscono tra loro una tregua in vista di un successivo ritorno alla competizione. Non possono essere definite tali ( e non è solo questione di nomi) quelle che danno vita ad un governo che si regge su poco più del 50% dei parlamentari e che, per giunta, potrebbe essere costretto a lasciare all’opposizione il partito di maggioranza relativa: esperimento inedito e, si presume, tutt’altro che stabilizzante.
Oggi sembra che si sia dimenticato cosa accadeva prima degli anni Novanta, quando non erano gli elettori a decidere chi dovesse governare. Le maggioranze si facevano e si disfacevano in Parlamento ricorrendo a modalità che, con il passar del tempo, produssero nell’elettorato un effetto straniante. Ma quello era ciò che da noi era sempre capitato fin dal 1861 quando nacque lo Stato italiano. L’Italia è stato l’ultimo Paese democratico in cui si è data l’alternanza per via elettorale, senza passaggi parlamentari intermedi (come quello che si ebbe a metà anni Novanta con il governo presieduto da Lamberto Dini). L’ultimo. Qui, a partire dal 1861 fu solo nel 2001 che una maggioranza (in quel caso di centrosinistra) venuta fuori cinque anni prima dalle urne, cedette il passo ad una (di centrodestra), in seguito al responso delle stesse urne.
Poi la cosa si ripeté nel 2006 e nel 2008 ma già nel 2013 il sistema entrò in crisi e i governi ripresero ad esser fatti in Parlamento senza un decisivo contributo degli elettori. Probabilmente questo accadde perché avevamo scelto di non andare al voto nel 2011 quando la legislatura era già in evidente agonia e conseguenza di questa scelta fu nel 2013 la valanga per il movimento Cinque Stelle. Adesso, indipendentemente da quando si andrà al voto, è probabile che la prossima legislatura non sarà tra le più stabili nella storia dell’Italia repubblicana. E non è da escludere che successivamente saremo chiamati a tornare alle urne in tempi brevi, come è accaduto recentemente in Grecia e in Spagna.
In questa prospettiva è bizzarro che, a sinistra, sia stato resuscitato l’Ulivo. Forse lo si è fatto perché l’immagine della creatura di Romano Prodi evoca successi e unità. Già, l’unità. Nel Novecento i gruppi che venivano espulsi o si scindevano dal Partito socialista presero l’abitudine di inserire nella loro denominazione il termine «unità» ad occultare il fatto che la loro comparsa sulla scena annunciava la divisione della sinistra in ulteriori tronconi. Per primi, nell’ottobre del ’22, si definirono Partito socialista «unitario» i compagni di Filippo Turati e Giacomo Matteotti espulsi dal Psi nei giorni della marcia su Roma. Nel ’48 si chiamarono «Unità socialista» le due formazioni ex Psi — guidate da Giuseppe Saragat e da Ivan Matteo Lombardo — che avevano rifiutato la scelta frontista alle elezioni del 18 aprile. Nel ’49, pretesero di darsi nuovamente il nome di Partito socialista «unitario» i seguaci di Giuseppe Romita e Giuseppe Faravelli fuorusciti dal Psi. Si autoproclamarono invece Partito socialista di «unità» proletaria coloro che, nel ’64, con Tullio Vecchietti e Lucio Libertini, abbandonarono il Psi al momento dell’ ingresso nel primo governo di centrosinistra organico. E per la terza volta vollero denominarsi Partito socialista «unitario» quelli che, guidati da Mauro Ferri (ma regista dell’operazione fu Giuseppe Saragat, all’epoca Presidente della Repubblica) nel luglio del 1969 ruppero con il Partito socialista unificato e provocarono la caduta del governo guidato da Mariano Rumor.
Unità, unità, unità: ogni volta che lasciavano il partito madre quei grandi della sinistra storica si definivano «unitari». Ed è un segnale interessante che queste nuove formazioni della sinistra prendano l’abitudine di proclamarsi «uliviste». Pur se è improbabile che, in virtù di questo cambio di denominazione, gli scissionisti del nuovo millennio abbiano prospettive di successo maggiori di quelli che nel secolo scorso si dicevano «unitari».