Fonte: Corriere della Sera
di Ernesto Galli della Loggia
È stato un errore credere che a casa nostra e con noialtri contasse soltanto il denaro
Il cuore della questione non è la guerra fredda che torna o l’ambizione Usa di una nuova egemonia nei confronti dell’Europa. Il cuore della questione è l’illusione coltivata da Putin e l’errore sempre più evidente commesso dai dirigenti cinesi. Sono questi due elementi, infatti, l’origine vera della svolta in atto sula scena internazionale.
Mi occuperò per il momento del primo, dell’errore dei dirigenti cinesi. Esso è consistito nel credere che l’economia sia la chiave e il motore di tutto, che alla fine ogni problema possa ridursi a un vantaggio o a uno svantaggio economico. Mentre invece accanto all’economia esiste anche la politica, esistono l’algebra del potere, gli interessi degli Stati e delle classi dirigenti, il peso delle idee, del passato, dell’opinione pubblica.
È su questo tavolo cruciale che la Cina sta perdendo la partita che solo poco tempo fa sembrava quasi avviata a vincere a mani basse. Pechino, infatti, aveva creduto di potere acquistare simpatia ed influenza crescenti in questa parte del mondo, per dirla in una parola comprandoci. È un termine forte, ma rende l’idea dei mezzi impiegati: innanzi tutto la messa a disposizione dei capitalisti e dei consumatori occidentali di una manodopera senza diritti e quindi a basso costo, e insieme l’apertura agli stessi capitalisti e alle loro produzioni del proprio immenso mercato.
Al tempo stesso cercare di penetrare nei sistemi economici occidentali e cercare di fatto di egemonizzarli costruendo una tenaglia con due braccia: da un lato l’acquisto in Europa di una serie di porti, di attrezzature e infrastrutture cruciali specialmente elettroniche, nonché di aziende più o meno strategiche; dall’altro — ricorrendo anche a una politica di virtuale colonizzazione in Africa — mirare al monopolio mondiale di materie prime indispensabili per molte produzioni di avanguardia.
C’è stata anche una forma più subdola e mirata di ricerca d’influenza. Quella che ha puntato direttamente agli ambienti politici, culturali e accademici: offrendo viaggi, conferenze super retribuite, ospitalità lussuosa a convegni inutili, convenzioni più che remunerative per cattedre e corsi universitari. E poiché a pensare male «si fa peccato ma…» con quel che segue, è difficile escludere che nelle tasche di qualche esponente del fragile e inconsistente ceto politico che caratterizza l’Occidente attuale non sia arrivato da Pechino anche qualcosa di più concreto.
Ma la Cina si è illusa che fosse alla lunga possibile mantenere in Occidente questo stato di cose per lei così vantaggioso — e magari accrescere addirittura la multiforme influenza non solo economica così conseguita — lasciando inalterati i caratteri del proprio sistema politico.
Ha pensato cioè che con l’Occidente fosse possibile un rapporto all’insegna dei due pesi e due misure. Che a casa nostra e con noialtri contasse e dovesse contare solo la dimensione dell’economia (che peraltro lasciava a lei la massima libertà d’azione con gli ovvi effetti politici di cui però chissà perché gli occidentali avrebbero dovuto disinteressarsi), mentre a casa sua, invece, e in tutte le faccende che la riguardavano da vicino dovesse avere il predominio assoluto la politica. Cioè l’interesse dei suoi governanti alla inalterata sopravvivenza del proprio regime. Un regime dispotico e violento, pronto non solo a perseguitare ferocemente ogni minoranza etnica e religiosa (islamici, cattolici e buddisti), ma pure chiunque si azzardi a pensare di trasferire sul terreno della libertà di pensiero e dei diritti civili la relativa libertà economica concessa dalla svolta di Deng in avanti (vedi il caso di Jack Ma, presidente di Alibaba, o di Wan Xing, presidente di Meituan, un gigante della distribuzione alimentare, entrambi privati del loro potere dall’oggi all’indomani essendo caduti in disgrazia per ragioni ideologiche).
Nella concezione dei dirigenti cinesi, insomma, il capitalismo che a loro piace è, e deve restare, solo una struttura produttiva, di fatto riducibile alla semplice proprietà privata dei mezzi di produzione e alla libera formazione dei prezzi sul mercato: l’una e l’altra peraltro sempre sotto stretto controllo politico-poliziesco, così come sotto il medesimo stretto controllo devono restare i padroni dei mezzi di produzione, gli operai e i consumatori. Al dunque il capitalismo per Pechino è una sorta di prigione con dentro delle macchine. Non già invece, come un certo Carlo Marx sosteneva a suo tempo, una formazione storico-sociale complessa che è fondata su un principio di libertà, sia pure inizialmente «astratta e formale» quanto si vuole, che però ha finito per improntare di sé tutte le relazioni tra gli uomini, dando vita a infinite contraddizioni destinate tuttavia a rivelarsi un formidabile motore di progresso storico.
È tra questa due idee di capitalismo, che poi sono due realtà — da un lato l’idea del capitalismo come un insieme di struttura e di sovrastruttura che ha dato origine alla realtà della democrazia liberale, e dall’altro l’idea di un capitalismo come semplice proprietà privata dei mezzi di produzione e sistema dei prezzi non controllati ma entrambi sotto la guida dello Stato-partito che se ne serve per i suoi scopi politici — è tra queste due realtà che alla lunga si sta producendo una inevitabile incompatibilità. All’uso politico-egemonico del capitalismo-prigione da parte della Cina non può che fare riscontro l’opposizione politica del fronte delle democrazie capitalistiche.