Fonte: Huffton Post
di Claudio Paudice
Una grande insidia per l’economia mondiale, al pari delle varianti del virus. Gravi criticità per l’acciaio (e anche l’Ue ha le sue colpe)
L’acciaio non si trova, il legname nemmeno, la mancanza di chip minaccia la produzione di auto e dell’elettronica di consumo. Sono tre esempi che bastano da soli a fotografare lo stato dell’arte nei mercati delle materie prime. Prodotti indispensabili per la produzione industriale che si fatica a reperire e, quando si trovano, si pagano caro. Una dinamica, esplosa in autunno, che ha letteralmente stravolto le catene di fornitura globali, e che non accenna a placarsi, tanto da rappresentare una minaccia sempre più concreta per la ripresa post-Covid e, riguardo all’Europa, anche per la riuscita del tanto atteso Recovery Fund. Oggi gli analisti di mercato sono concordi nel definire la difficoltà di approvvigionamento come una delle più grandi insidie per l’economia mondiale, al pari delle nuove varianti del virus.
Tra novembre 2020 e luglio 2021, il prezzo del tondo di acciaio per il cemento armato è aumentato del 243%, quello del pvc del 73%, quello del rame del 38%, quello del legno di conifere, usato largamente nella produzione industriale, del 76%. E poi: nello stesso periodo il costo per il polietilene ad alta densità che viene impiegato in una svariata quantità di prodotti (mobilio di plastica, cavi per le telecomunicazioni, taniche, tappi per le bottiglie) è più che raddoppiato, quello a bassa intensità impiegato in recipienti vari, imballaggi ma pure gli scivoli dei parchi-giochi per bambini, è cresciuto del 128%.
Anche il trasporto per la merce containerizzata non fa eccezione, segnando punte record da mesi ormai, con continui e progressivi rialzi che se da un lato fanno sorridere i grandi carrier internazionali, dall’altro potrebbero presto riversarsi sui prezzi al consumo. Nell’ultima rilevazione, l’indice composito mondiale World Container di Drewry ha superato i 9600 euro per i contenitori da 40 piedi. Per stare all’Europa il nolo di un container sulla rotta da Shanghai a Rotterdam (primo scalo Ue) sfiora oggi i 14mila euro; e, per stare all’Italia, il costo da sostenere per far arrivare merce da Shanghai a Genova (primo scalo d’Italia) è di circa 13mila euro, pari al 570% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Il caro prezzi non risparmia nemmeno il trasporto delle rinfuse secche, merce cioè non containerizzata come carbone, grano, minerale di ferro: l’indice di riferimento (Baltic Dry Index) ha toccato il livello massimo mai registrato dal 2011.
Per chiudere il cerchio, nei giorni scorsi la maggior parte delle case automobilistiche ha annunciato blocchi produttivi e tagli dei ricavi attesi per il 2021 a causa della mancanza di chip, dovuta essenzialmente all’introvabilità di semiconduttori come silicio e non solo, indispensabili sia all’elettronica di consumo sia alla produzione di veicoli moderni dove la parte tech rappresenta ormai il 40% del valore del bene finito. Anche in questo caso la scarsità d’offerta, come prevedibile, si traduce in prezzi in rialzo. Il colosso taiwanese dei semiconduttori Tsmc, il più grande produttore di chip in conto terzi, ha intenzione di aumentarli tra il 10 e il 20% nel periodo a cavallo tra il 2021 e il 2022, con un prevedibile impatto sull’elettronica di consumo nel periodo più “caldo”, il Natale.
La difficoltà di approvvigionamento sui mercati non è un fenomeno distante dall’economia reale ma sta lentamente iniziando ad avere effetti concreti, per nulla buoni. E l’Italia, in questo senso, non fa eccezione: martedì lo stabilimento Stellantis di Pomigliano d’Arco a Napoli ha sospeso alcuni turni subito dopo la pausa estiva, ma la fabbrica era già stata ferma per circa due mesi tra ferie e stop forzati, a causa della carenza di semiconduttori. L’impianto ex Fca di Melfi doveva riprendere la produzione il 6 settembre ma la ripresa è stata posticipata al 13 per lo stesso motivo: non ci sono i chip. Anche la Sevel, che produce veicoli commerciali per Stellantis, ha dovuto ritardare il riavvio delle attività nello stabilimento di Atessa, a Chieti. La produzione di automobili dopo la ripresa delle attività seguita ai lockdown è ripresa a singhiozzi per una carenza di materiali che sempre più analisti temono possa dilungarsi fino al 2023. Decisioni analoghe a quelle di Stellantis sono state assunte dai più importanti produttori europei come Volkswagen, Audi, Bmw, americani come Ford e General Motors, e asiatici come Toyota, Mazda e Subaru. Secondo la società di consulenza AlixPartners, la perdita complessiva per il settore dell’auto arriverà quest’anno a superare i 110 miliardi di dollari.
Per il Centro Studi di Confindustria “iniziano ad emergere anche in Italia gli effetti della scarsità di materie prime e di componenti, fattori che hanno determinato un blocco delle catene globali di fornitura, provocando strozzature nell’offerta in particolare in alcuni settori, come automotive, elettronica, macchinari”. Alla Electrolux di Susegana, in provincia di Treviso, per dire, saranno attivate 13 settimane di cassa integrazione non perché manchi la domanda di elettrodomestici ma perché non è possibile far fronte alla loro produzione “a causa della carenza di schede elettroniche e di acciaio”.
Il trend è confermato dagli ultimi dati Eurostat sui prezzi alla produzione industriale diffusi oggi: a luglio sono aumentati del 2,2% nell’Ue, rispetto a giugno 2021. A giugno, i prezzi erano aumentati dell′1,5%. Il confronto con l’anno scorso è ancora più indicativo: rispetto a luglio 2020, i prezzi alla produzione industriale sono aumentati del 12,1% nell’eurozona e del 12,2% nell’Ue. Il dato italiano registra un aumento del 2,5% a luglio, a giugno l’aumento era stato dell′1,7%.
La penuria di alcune materie prime è trasversale a vari comparti industriali, e rende perciò ancora più difficile intravedere all’orizzonte quell’atteso ritorno alla normalità sui livelli pre-Covid. Il settore edile, generalmente considerato volano per la crescita economica, è uno di questi. “Quello che registriamo è una doppia carenza, di manodopera e di materie prime. E questo è abbastanza singolare dal momento che i progetti finanziati dal Recovery Fund non sono ancora partiti, e il grosso dei cantieri relativi al Superbonus al 110% entrerà nel vivo nelle prossime settimane. Quando si passerà alla fase operativa, cosa succederà?”, dice all’HuffPost Edoardo Bianchi, vicepresidente di Ance, l’associazione dei costruttori edili. “La manodopera manca perché per anni, sotto vari governi, il nostro settore è stato messo all’angolo, senza dare quel necessario sostegno alla continuità che avrebbe reso l’edilizia più attrattiva per i giovani. È chiaro che un giovane non è interessato a lavorare solo per pochi mesi per poi essere mandato a casa”.
C’è però l’altro problema ed è quello delle materie prime. “I mercati di Cina e Stati Uniti sono ripartiti prima di noi, e in questo modo hanno assorbito buona parte della produzione di alcuni materiali come pvc, acciaio, rame nella fase iniziale di uscita dai lockdown”, continua Bianchi. “Sicuramente c’è una speculazione internazionale che contribuisce in parte all’incremento dei prezzi. Ma non è soltanto questo. C’è una vera carenza di alcune tipologie di materiali che rischia di minare la ripresa nell’autunno alle porte. Per alcuni prodotti, i fornitori comunicano molto chiaramente alle nostre imprese di non accettare ordini, riporto testualmente, ‘continuativi e massivi’”, spiega il vicepresidente dell’Ance. Le imprese che lavorano nell’edilizia, in pratica, non riescono a ricevere garanzie che la merce ordinata arrivi realmente nei loro magazzini secondo i tempi prestabiliti per le consegne. Una profonda incertezza che ha conseguenze abbastanza intuibili sulla programmazione dei lavori da parte di una azienda che si è aggiudicata un cantiere. “Ad aggiungere altra incertezza è l’andamento dei prezzi, molto ballerini. Tendono a cambiare nell’arco di 15 giorni”, motivo per cui la programmazione dei cantieri deve fare i conti con l’impossibilità di avere un quadro più o meno certo della spese di fornitura da affrontare. “Spesso però le ditte fornitrici non si impegnano a garantire le consegne perché loro stesse non sono in grado di farlo”.
Secondo i costruttori edili, l’incertezza che avvolge il loro settore può minare la riuscita di alcune misure che saranno finanziate con le risorse tanto attese del Recovery Fund che Bruxelles sta iniziando a distribuire ai Paesi membri in queste settimane. “Di questo passo l’aumento dei prezzi può avere un impatto anche sull’attuazione di molti progetti finanziati dal Superbonus”, continua Bianchi. “Chi diversi mesi fa ha presentato offerte per i primi progetti, ha fatto i conti basandosi su costi di fornitura molto più bassi rispetto a quelli che stiamo vedendo in queste settimane. Se i prezzi continuano a salire, il rischio di un blocco dei cantieri è reale. Il governo è consapevole di queste criticità, per questo ha adottato una norma per la revisione dei prezzi, ma vale solo per i contratti pubblici, non per i lavori nel privato finanziati col Superbonus”.
Col decreto Sostegni-Bis è stato introdotto infatti un meccanismo di compensazione a favore delle aziende per i rincari dei materiali registrati nel primo semestre 2021 superiori all’8% per i lavori pubblici aggiudicati nel 2021, ed eccedenti il 10% se riferiti agli anni precedenti. Ma per i contratti privati, ad esempio i lavori finanziati attraverso il Superbonus al 110% per gli edifici condominiali, ben poco è stato fatto. Il rischio è un allungamento dei tempi e il mancato rispetto dei contratti stipulati, denuncia l’Ance.
Uno dei materiali che rischia di creare maggiori criticità nelle filiere produttive di diversi settori è l’acciaio. Per semplificare, il metallo si può dividere in due grandi famiglie, quello al carbonio e quello inossidabile (inox). “Sul primo – spiega all’HuffPost Gianclaudio Torlizzi, esperto dei mercati di materie prime e direttore generale della società di consulenza finanziaria T-Commodity – le tensioni sembrano essersi parzialmente placate, pur registrando un prezzo doppio rispetto a un anno fa. Ma è sull’acciaio inox che la situazione dal lato dell’offerta rischia di aggravarsi”. Peggioramento dovuto per larga parte alla grave carenza di acciaio registrata a livello globale, ma pure alle politiche commerciali adottate dai Paesi produttori.
La Cina, tra i maggiori fornitori di acciaio al mondo, ad agosto ha rimosso gli incentivi all’export di prodotti siderurgici laminati a freddo e zincati. Al tempo stesso ha alzato i dazi sull’export di ghisa (al 20%) e ferrocromo (al 40%), quest’ultimo componente fondamentale per la produzione di acciaio inossidabile. Il senso delle decisioni commerciali adottate da Pechino è facilmente intuibile: rafforzare l’offerta interna di acciaio e raffreddare i prezzi a vantaggio delle attività industriali domestiche.
Ad alimentare le tensioni sul prezzo dell’acciaio potrebbero presto contribuire anche gli Stati Uniti: “Lì, dove la carenza d’acciaio è ancora più grave rispetto all’Europa, stanno valutando di aggiornare i dazi all’import di acciaio, introdotti con la politica protezionista dell’amministrazione Trump, mantenendoli per i fornitori asiatici ma eliminandoli per quelli europei”. Una decisione che rischia di aumentare ancora di più la carenza nel Vecchio Continente: “Oggi, un laminato a caldo sul mercato europeo prezza duemila euro per tonnellata, un prezzo elevato ma circa 600 euro in meno rispetto a quello americano. Il timore è che se l’amministrazione Biden dovesse rimuovere le misure di protezione, le acciaierie europee dirottino i loro prodotti sul mercato Usa, dove il margine di guadagno è maggiore. Al momento non c’è nulla di ufficiale, si tratta di uno scenario di rischio, ma a mio avviso molto concreto, perché alcuni segnali dagli Stati Uniti in tal senso stanno già arrivando”.
Com’è noto nel 2018, l’ex presidente Donald Trump avviò una politica dei dazi per proteggere il mercato Usa dalle forniture cinesi e per compensare il deficit commerciale che in diversi settori l’industria americana aveva nei confronti di quella europea, e in particolar modo quella tedesca. La Casa Bianca decise di applicare la Sezione 232 con dazi del 25% sulle importazioni di acciaio. Per rispondere alla guerra commerciale dichiarata dall’altra sponda dell’oceano Atlantico, la Commissione Ue corse ai ripari approvando misure di salvaguardia per il mercato siderurgico europeo. Furono perciò introdotte quote alle importazioni per 26 tipologie di prodotti di acciaio, variabili a seconda dei Paesi di importazione e basate sulla media delle importazioni nel periodo dal 2015-2017. L’intento originario era senza dubbio nobile: proteggere le acciaierie europee dalla concorrenza spietata praticata dai Paesi asiatici e replicare all’affondo di Trump. Pertanto chi superava le quote all’import prestabilite per un determinato Paese extra-Ue, doveva pagare un dazio del 25%.
A giugno scorso le quote trimestrali sono state prorogate dalla Commissione per altri tre anni. Ma i tempi sono cambiati: oggi si registra una grave carenza di materiali di cui la Commissione, con l’intento di salvaguardare gli interessi dei grandi produttori d’acciaio europei, non sembra aver tenuto conto nella sua decisione: “Le aziende europee non sono in grado di sostenere anche un dazio del 25% che si va ad aggiungere ai prezzi già saliti oltre i livelli di guardia”. Una strada che tuttavia potrebbe essere obbligata se la carenza di acciaio non si placa, anche perché le quote di importazione per diversi Paesi produttori in alcuni casi sono già state raggiunte: “Basti pensare – spiega Torlizzi – che nel trimestre in corso le quote per importare acciaio da Paesi come Turchia e Taiwan si sono esaurite già ad agosto, data la situazione di grave penuria, presto toccherà a quelle della Corea del Sud”. Vuol dire che prima della fine di settembre, quando terminerà il trimestre di riferimento, non è possibile importare da questi Paesi altro acciaio, a patto che non si voglia pagare dazio. Il risultato? “Oggi, mentre parliamo, ci sono migliaia di tonnellate di acciaio inox provenienti da Taiwan ferme nei porti di Marghera e La Spezia di cui le aziende italiane che le hanno ordinate avrebbero urgente bisogno”, conclude Torlizzi, “ma non sono state ancora sdoganate per non dover pagare la tariffa per il superamento delle quote Ue. Una situazione paradossale, a dir poco”.