22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Massimo Ferrera

I politici, soprattutto i nostri, dovrebbero mettersi gli occhiali e alzare lo sguardo. Auspicabilmente incalzati da un’opinione pubblica più matura e da un maggiore attivismo da parte degli elettori più giovani e consapevoli dei propri interessi


Nel Settecento il filosofo David Hume diceva che gli individui hanno un’«anima ristretta», incline a privilegiare il presente rispetto al futuro. Perciò hanno bisogno di essere governati. Hume era un liberale, padre nobile del costituzionalismo moderno. Non pensava certo a un leader con pieni poteri, ma a un sistema di governo capace di orientare la cooperazione verso l’interesse generale, che inevitabilmente riguarda anche il futuro. La democrazia basata su elezioni e partiti ha tanti meriti, ma fatica a gestire il lungo periodo. In particolare tende a ignorare le sfide «a sviluppo lento». Il riscaldamento globale, l’invecchiamento demografico, l’erosione della competitività o del capitale umano procedono per piccoli cambiamenti, giorno dopo giorno. Di tanto in tanto, un’emergenza richiama l’attenzione pubblica, il governo reagisce, annuncia piani di ampio e lungo respiro. Le tristi vicende di Venezia insegnano però che, dopo gli interventi immediati (quelli che riguardano il qui ed ora), i piani restano nel cassetto. Oppure si trasformano (come per il Mose) in uno spezzatino di fasi temporali e interventi parcellizzati da cui la politica può ricavare vantaggi immediati. Non succede solo nel nostro Paese. La democrazia pecca ovunque di una miopia temporale che avrebbe indignato il povero Hume. Da noi questa patologia assume però forme e intensità anomale.
Il sistema politico italiano è privo di qualsiasi argine contro il prevalere del breve termine e, prima ancora, sembra del tutto inconsapevole dei danni irreparabili provocati dalla miopia. Esistono rimedi? In molti Paesi sono in corso interessanti sperimentazioni per legare le mani al presente. Nel Regno Unito, tutta l’azione di governo è sottoposta al monitoraggio di un «Programma per la scansione del futuro», sotto il controllo del primo ministro. Nel 2018 alla Camera dei Comuni si è formata una Alleanza inter-partitica per la difesa delle nuove generazioni, che studia correttivi alla legislazione vigente e vorrebbe istituire un vero e proprio ministro del Futuro nella compagine di ogni esecutivo. In Francia, Emmanuel Macron ha deciso di creare un nuovo organo costituzionale formato da cittadini estratti a sorte, che dovrebbe funzionare come una «Camera per il futuro», soprattutto sulle questioni ambientali. Una riforma analoga è in discussione in Canada. In Giappone in alcune città si tengono assemblee consultive per orientare le decisioni più delicate. Sono composte da due gruppi: i difensori del presente contro i difensori del futuro. Fra gli studiosi circolano idee ancora più ambiziose. C’è chi propone la creazione di un vero e proprio Tribunale delle generazioni, che dovrebbe dare pareri vincolanti sulle politiche pubbliche con implicazioni a lungo termine.
Per rendere più effettive e cogenti queste innovazioni servirebbe una qualche domanda dal basso. Greta Thunberg ha guadagnato una sorprendente visibilità sul piano globale, incoraggiando la formazione di nuovi movimenti per la difesa del pianeta. Non è chiaro se si tratti di una fiammata passeggera oppure di una svolta destinata a durare. Intanto i partiti verdi stanno riprendendo quota, come dimostrano i casi tedesco e austriaco.
Negli Stati Uniti le acque avevano iniziato a smuoversi già prima di Greta. Dal 2015 è attivo ad esempio l’Our Children Trust, un’organizzazione giovanile diventata famosa per aver intentato una causa contro il governo federale. L’accusa è di aver consentito pratiche nocive per l’ambiente e danneggiato così un diritto fondamentale delle nuove generazioni. Se ne sta ora occupando la Corte Suprema. Non è escluso che l’esigenza di difendere i beni comuni e gli interessi delle nuove generazioni dia vita ad una nuova fase di sviluppo del costituzionalismo liberale (cosa che renderebbe molto fiero David Hume).
In Italia questi sviluppi e dibattiti sono fuori dai radar politici (e intellettuali). Il futuro è trattato come una specie di colonia lontana e disabitata in cui scaricare i danni prodotti dalle attuali generazioni: pensiamo al debito pubblico. Per giustificare la conquista dell’Australia, alla fine del Settecento, gli inglesi sostenevano che quelle terre erano res nullius, non appartenevano a nessuno. Oggi noi applichiamo implicitamente questo ragionamento anche al futuro. Gli allarmi sulla possibile scomparsa di Venezia lanciati dalla stampa straniera in questi giorni fanno accapponare la pelle. Ma potrebbe finire peggio. A furia di considerarlo come «tempo di nessuno», il futuro rischia di trasformarsi in un tempo «senza nessuno».
Per fortuna si tratta di un rischio a sviluppo lento. Con un po’ di impegno, potrebbe essere contenuto. Ma i politici, soprattutto i nostri, dovrebbero mettersi gli occhiali e alzare lo sguardo. Auspicabilmente incalzati da un’opinione pubblica più matura e da un maggiore attivismo da parte degli elettori più giovani e consapevoli dei propri interessi.

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