22 Novembre 2024

Se chiudono scuole, cinema, teatri, librerie, edicole, negozi di giocattoli o di artigianato cosa resterà della possibilità di incontrarsi e vivere insieme in quartieri desertificati o fatti solo di ristoranti e farmacie?

«Puoi riprendere il volo quando vuoi — mi dissero — ma arriverai a un’altra Trude, uguale punto per punto, il mondo è ricoperto da un’unica Trude, che non comincia e non finisce, cambia solo il nome dell’aeroporto». Italo Calvino — quando uscì, nel 1972, «Le città invisibili» — aveva immaginato, temendola, l’omologazione del nostro vivere urbano, la progressiva assimilazione della esperienza umana nelle città, se non il loro stesso aspetto, a un modello unico.
La globalizzazione come corazza, come vernice che rende tutto uguale, che camuffa e piega le differenze che nascono dalla storia, che risiedono nella memoria, che ci rendono tutti diversi, meravigliosamente diversi, nello stesso tempo vissuto. Ma ora sta accadendo qualcosa di più terribile, di più temibile. Le città stanno scegliendo un colore solo. Ma è quello grigio delle saracinesche abbassate. Insegne luminose spente, vetri appannati, scatoloni accatastati.
Nel totale disinteresse di tutti, la Confcommercio ha segnalato che negli ultimi dieci anni hanno chiuso centomila negozi e sedicimila ambulanti hanno tirato su i banchi. Il fenomeno, dice il rapporto dell’Ufficio studi dell’associazione, riguarda in primo luogo i centri storici, specie del Centro Nord. Nel periodo esaminato è calato quasi del 20% il numero dei negozi per mille abitanti. In particolare, lo scrivo con dolore non credo solo personale, a tirare giù le serrande sono stati i locali che vendevano libri o giocattoli, meno 31%, e quelli di ferramenta e mobili. Crescono invece le farmacie, gli esercizi di telefonia e computer, i ristoranti. E nella statistica non vengono forse calcolate le edicole sradicate dall’asfalto, i cinema spenti, i teatri muti.
Che immagine ci restituiscono questi dati? La fotografia reale di un’Italia stanca e vecchia. Più farmacie e meno giocattoli, più cellulari e meno consumi culturali. Cosa serve ancora per capire che il nostro meraviglioso Paese rischia di essere consumato dai suoi vizi, primo tra tutti la rimozione di ogni visione d’insieme della sua evoluzione possibile?
So bene che una parte dei consumi dei beni che non si trovano più nei quartieri è assicurato altrove. Ma è un solo altrove, la casa. Si lavora da casa, ci si fa portare i libri, si vedono i film sul proprio televisore, si esce solo per mangiare o per comprare un caricatore per il cellulare. Tutto comodo, ma tutto in solitudine, in una nazione in cui esistono 8,5 nuclei familiari unipersonali. È il nuovo «Tutti a casa» che sta spogliando le città, riducendo le occasioni di socializzazione, di fruizione collettiva, di scambio.
La pandemia ci ha cambiato molto più profondamente di quanto si potesse pensare. Ha introdotto un senso di ansia, un bisogno costante di verifica della propria autostima, una fragilità e una violenza nelle relazioni di cui le cronache sono piene ogni giorno.
Senza ricorrere a facili sociologismi o a determinismi incongrui è difficile non mettere in relazione il passaggio d’epoca che la pandemia ha segnato con l’emergere dei 53.000 ragazzi italiani che, da allora, hanno deciso di non uscire più di casa o l’esplodere del fenomeno delle bande giovanili che usano la violenza come linguaggio e istinto di autoaffermazione.
Si aggiunga che in questo Paese, attraversato dai profeti dell’egoismo sociale e capace di chiudere agli immigrati dei quali ha ovunque bisogno, le scuole si svuotano e le Rsa si riempiono. Così si delinea un quadro del futuro che, senza una visione, rischia di assicurare all’Italia una prospettiva di declino.
Non si può chiedere solo ai sindaci di affrontare queste sfide. Le città sono il nostro habitat naturale, il luogo della nostra esperienza vitale. A cavallo del secolo hanno conosciuto un periodo di crescita eccezionale e costituito modelli di governo ispirati all’obiettivo del miglioramento della vita dei cittadini. Ora gli amministratori non possono essere lasciati soli a fronteggiare questo mutamento veloce e radicale.
Se chiudono scuole, cinema, teatri, librerie, edicole, negozi di giocattoli o di artigianato cosa resterà della possibilità di incontrarsi e vivere insieme in quartieri desertificati o fatti solo di ristoranti e farmacie? Il vivere sociale è il vivere stesso. Le città rischiano l’invivibilità e l’aggravarsi del divario, lacerato dalla crisi sociale, tra centri storici e periferie.
Forse è il tempo che tutti, maggioranza e opposizione, parti sociali e enti locali, comincino a discuterne. Che si decidano politiche degli affitti dei locali per servizi considerati essenziali, che si aprano le scuole al pomeriggio per la formazione permanente, che si sperimentino forme innovative di circolarità e di scambio praticate in altri Paesi.
Che si guardino le città non solo come nastri di asfalto, ma come luogo della vita. Dal loro stato di salute dipende, per intero, quello, sociale ed emotivo, della nostra comunità.

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