19 Settembre 2024
cappello universita

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La Commissione europea vuole portare da 40 a 60 i «cartelli universitari europei» coinvolgendo in tutto 500 atenei. Ma l’invito agli Stati membri a fare di più si scontra con la disomogeneità dei bilanci in materia di istruzione terziaria e ricerca

«Oggi più che mai la società europea ha bisogno del contributo delle università (…) per plasmare economie sostenibili e resilienti e rendere l’Unione più verde, inclusiva e digitale». Parole sante, parole della Commissione europea che ieri ha lanciato la sua strategia per l’università del futuro. Un programma ambizioso che da qui al 2024 dovrebbe, nell’ordine, potenziare il sistema già esistente di alleanze interuniversitarie – le cosiddette università europee – raddoppiando il numero di partecipanti (fra i quali già si contano parecchie università italiane, dai Politecnici di Milano e Torino alla Federico II di Napoli, passando per la Normale e la Sant’Anna di Pisa); lavorare all’elaborazione di uno statuto giuridico che consenta a questi istituti di mettere in comune risorse e capacità; lavorare alla creazione di un diploma europeo comune che riconosca il valore delle esperienze compiute all’estero dagli studenti anche nel titolo di laurea; e infine potenziare la carta europea dello studente per agevolare la mobilità dei giovani. Sul piatto, 1,1 miliardi di euro che verranno messi a disposizione per portare da 41 a 60 i «cartelli universitari europei», coinvolgendo in tutto 500 atenei dei quasi 5.000 disseminati in tutto il Continente. Un modo per poter meglio sostenere la competizione con le più blasonate università americane e i nuovi colossi asiatici. Ma c’è un ma. Mentre gli accordi interuniversitari possono procedere come han fatto finora camminando sulle proprie gambe, l’idea di istituzionalizzare la dimensione europea dell’istruzione superiore «mettendo in comune capacità e risorse» chiama in causa i singoli Stati, che infatti «sono invitati» dalla Commissione a «adottare misure e creare le condizioni più adeguate a livello nazionale per permettere tale collaborazione».
Un invito, un monito che si scontra con la disomogeneità dei bilanci europei in materia di istruzione terziaria e ricerca: l’Italia, ad esempio, spende per l’università poco meno dell’un per cento del Pil, contro l’1,2% della Germania e l’1,5% della Francia. E sulla ricerca va pure peggio visto che siamo all’1,4% contro il 2,2 della Francia e il 3,1 della Germania. E’ vero che nel Pnrr il governo ha stanziato parecchi miliardi sia nel potenziamento di borse e alloggi universitari (1,5 miliardi) che nei dottorati (quasi mezzo miliardo) e soprattutto nella ricerca (11 miliardi). Ma questi soldi bisognerà, poi, riuscire a tradurli in progetti effettivi affinché possano essere spesi. Altrimenti i nostri talenti migliori continueranno a fare le valigie e ad andare a lavorare nei laboratori francesi e tedeschi, come ben si vede anche dall’ultima tornata di finanziamenti europei per la ricerca, i cosiddetti Erc grants.
Un’ultima osservazione a margine: si può lanciare un programma di collaborazione universitaria europea senza dire una parola di quanto è successo appena qualche mese fa in Ungheria – cioè in una delle stanze, e nemmeno delle più piccole della nostra casa comune – dove il teorico della democrazia illiberale, il «democratore» Orban, per meglio spiegarci il suo pensiero ha pensato bene di silenziare il dissenso privatizzando – cioè affidando a delle fondazioni a lui amiche – tutte le università magiare?

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