Fonte: Corriere della Sera
di Paolo Mieli
Se riuscirà a far decollare la legislatura con un nuovo governo il capo dello Stato avrà compiuto un’impresa senza precedenti nella storia dell’Italia repubblicana
Se riuscirà a far decollare la legislatura con un nuovo governo (e stavolta il «se» va preso alla lettera, non come una manifestazione di cautela), il presidente della Repubblica Sergio Mattarella avrà compiuto un’impresa che non ha precedenti nella storia dell’Italia repubblicana. Di trapezisti politici costretti a misurarsi con maggioranze spericolate, in passato, ne abbiamo visti all’opera parecchi; ma questa è la prima volta – da oltre quarant’anni, dai tempi di Giovanni Leone – che sotto di loro, a proteggere quei funamboli, non c’è la rete dell’«unità nazionale». Dalla metà degli anni Settanta, ogni presidente della Repubblica ha avuto a disposizione il ricorso, in extremis, ad un «governo di tutti», anche se poi ad adottare questa soluzione furono solo Oscar Luigi Scalfaro (con Carlo Azeglio Ciampi) e Giorgio Napolitano (due volte: con Mario Monti nel 2011 e con Enrico Letta nel 2013). E va dato atto a Mattarella (sempre che riesca nell’intento) che varare un governo in condizioni così proibitive, non avendo a disposizione la prospettiva di un gabinetto «neutrale» votato da tutti, non è un’impresa di scarso rilievo. Pochi avrebbero saputo evitare il burrone delle elezioni entro l’anno. Forse nessuno.
D’altra parte i Cinque stelle – che, ricordiamolo, sono il partito di maggioranza relativa con un grandissimo vantaggio rispetto a tutti gli altri – respingono, sensatamente dal loro punto di vista, la prospettiva di partecipare ad una coalizione dal profilo istituzionale. È una carta, quella di questo genere di coalizioni, che è già stata abbondantemente giocata nell’attuale decennio e il movimento di Grillo ha ottenuto un clamoroso successo proprio per essersi opposto con tutti i mezzi ad un tal genere di governi. Altrettanto sensato — sempre dal loro punto di vista — è che Luigi Di Maio prospetti un «contratto» e non un’«alleanza». Significa limitare il rapporto con l’interlocutore di governo alla «realizzazione dell’accordo», preservando l’identità «né di destra, né di sinistra» e riservandosi la più totale libertà nell’eventuale opzione a favore questa, quella (o nessuna) scelta di coalizione politica. Discorso che vale per il movimento, ma dovrebbe valere e varrà anche per il partner di contratto. Partner che, come è noto, qualche settimana fa avrebbe potuto essere anche il Pd.
A proposito di Pd, è immaginabile che Mattarella avrebbe preferito — per cultura, formazione e provenienza politica — un esecutivo che facesse leva su un «contratto» tra Cinque stelle, sinistre varie ed elementi sparsi raccattati tra sudtirolesi, gruppo misto e senatori a vita. Ma lui stesso si è reso conto che ne sarebbe venuta fuori una maggioranza oltremodo malsicura, traballante. Talché non gli è parso il caso di insistere. L’unica aggregazione parlamentare davvero possibile — opportunamente assecondata dal Colle con la minaccia del governo neutrale e delle elezioni anticipate — restava quella con la Lega, tutelata — proprio in omaggio al mantra pentastellato sulla differenza tra «contratto» e «alleanza» — nel suo legittimo interesse a tenere in vita il rapporto con Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi.
Ovvio che Salvini abbia preservato il patto stipulato prima del 4 marzo: nelle settimane trascorse dal 4 marzo ad oggi, il centrodestra ha dato prova — in Molise e Friuli Venezia Giulia — di possedere una vitalità fino a poco tempo fa imprevedibile, talché adesso, come effetto anche della «riabilitazione» di Berlusconi, è possibile che sia presto nelle condizioni di raggiungere quella «quota 42-43 per cento» in virtù della quale poterebbe alle prossime elezioni conquistare la maggioranza assoluta in entrambe le Camere. Con un riequilibrio nei rapporti tra Forza Italia e la Lega che, se forse destabilizzerebbe un po’ la coalizione, in compenso farebbe del centrodestra un treno molto particolare, a doppia locomotiva. Vale qui la pena di ricordare che nei prossimi mesi tale coalizione dovrà misurarsi in elezioni amministrative dalle quali potremo verificare quanto incida il ritorno pieno sulla scena (una scena peraltro mai abbandonata) di Berlusconi.
Dalle elezioni negli enti locali — in primis quelle del 10 giugno — apprenderemo anche altre cose. Primo: se il Nord consoliderà la scelta del 4 marzo restando (quasi) tutto in mano al centrodestra e se il Sud sarà ancora territorio dei pentastellati. Secondo: se uno dei due movimenti — M5S, Lega — riuscirà ad imporsi o anche solo a far breccia in qualche regione dell’altro. Terzo: se la sinistra sarà capace di rientrare in partita e soprattutto come si comporterà nei ballottaggi, se cioè, quando se ne darà l’occasione, appoggerà i candidati di Grillo e se, nel caso opposto, riceverà il voto dell’elettorato Cinquestelle. Oppure, se quello stesso elettorato grillino, in caso di ballottaggio opterà per i leghisti — pur sempre partner di governo — o sceglierà, come in passato, di astenersi.
E qui vale una considerazione che forse è stata in questi giorni trascurata: il centrodestra un’alleanza ce l’ha, gli altri partiti no. Questi ultimi possono scegliere di non porsi il problema fino a quando non verrà il momento delle prossime elezioni politiche; ma rischiano, già ora, di pagare un prezzo assai alto nell’immensa periferia italiana. Un conto particolarmente salato per il Partito democratico, assuefatto ad una consolidata presenza nelle amministrazioni locali. Conto che all’improvviso potrebbe presentarsi in maniera insostenibile nel caso di elezioni anticipate.
Quando? Allo stato attuale nessuno sarebbe disposto a scommettere sulla durata di questa legislatura. Ma, se nascesse un governo Di Maio-Salvini, potrebbe accadere che il patto regga per un tempo lungo: il tempo necessario a preparare il campo per la prossima partita nella quale gli stessi Di Maio e Salvini — o i loro rispettivi movimenti guidati da altri — immaginano di sfidarsi e di dar vita ad un nuovo bipolarismo. In tutto questo tempo sarà certo difficile svolgere il ruolo dei partiti di maggioranza, sottoposti quotidianamente a spinte centrifughe e sorvegliati da Quirinale, Banca d’Italia, Corte costituzionale, Europa. Ma non sarà facile nemmeno presidiare l’altra parte del campo, quella dell’opposizione. Cinquestelle e Lega lo hanno fatto negli ultimi sette anni in modo assai efficace e i risultati, per loro, si sono visti. Non sarà altrettanto agevole per partiti che hanno da tempo una vocazione riformista, europea, «di sistema», mettersi nelle condizioni di intercettare eventuali spinte di ostilità antigovernativa. In particolare per la sinistra che — come quasi tutti i partiti socialisti dell’Europa continentale — da qualche decennio (cioè da molto prima che nascesse il Partito democratico) è sembrata aver perso ogni vocazione a porsi «alla testa dei movimenti». Con l’aggravante che quei segmenti staccatisi dal troncone principale per inseguire i movimenti di cui sopra, sono stati, nell’ora del giudizio, assai maltrattati dagli elettori. Si può dire che, agli effetti della stabilità del sistema, quella dell’edificazione dell’attuale governo appare come la soluzione al primo, solo al primo, di una lunga serie di problemi. Risolto il quale per il fin qui abilissimo Sergio Mattarella non si annuncia certo una stagione di riposo.