EDITORIALE
di Ernesto Galli della Loggia Fonte: Corriere della SeraSe oggi l’Italia è l’unico fra i maggiori Paesi europei che vede contemporaneamente un forte successo della sinistra e insieme del governo di cui essa è parte preponderante, ciò si deve a una successione di fatti assolutamente peculiari nel panorama continentale avvenuti negli ultimi 36 mesi, i quali hanno determinato una svolta del nostro sistema politico.
Il motore di questa svolta non è stato Renzi, bensì il combinato disposto Renzi-Grillo, il combinato disposto – benché del tutto involontario – del loro operato. È più che giusto oggi irridere all’errore clamoroso commesso nella campagna elettorale dal comico genovese, ebbro di un narcisismo parossistico e aggressivo; ma resta il fatto che senza Grillo molto probabilmente non ci sarebbe stato neppure Renzi.
Tutto comincia nel 2012. Mario Monti, dopo le prime settimane di governo in cui vara alcuni provvedimenti necessari per salvare il Paese dalla bancarotta, comincia a mostrare tutta la sua inconsistenza politica. L’uomo si segnala poi per una sua albagia che ne fa in breve una sorta di caricatura di quelle élite che ormai si avviano a divenire il bersaglio di una protesta che dilaga in tutta Europa. E che in Italia si incarna nel movimento di Grillo. Ma a differenza di ciò che accade dovunque in Europa, la protesta anti-sistema grillina – per una serie di ragioni riguardanti la storia d’Italia, troppo lunghe a spiegarsi in questa sede – non si àncora a destra, bensì a sinistra. Potrà dispiacere a chi ama vedere il fascismo dappertutto, potrà disturbare chi è convinto che a sinistra possano albergare solo l’urbanità dei modi, la profondità dei ragionamenti e l’eleganza dell’eloquio, ma è così. Ed è qualcosa di molto peculiare: per i suoi contenuti e i suoi accenti la retorica dei 5 Stelle ha un marchio inconfondibilmente di sinistra. Tanto è vero che sarà destinata a far presa moltissimo proprio su quell’elettorato oltre che su quello di diversa natura.
Intanto però è avvenuto un secondo fatto decisivo, anch’esso senza riscontro in Europa. Molto coraggiosamente un giovane esponente periferico del Pd, del tutto isolato, ha lanciato la sfida all’establishment del suo partito, che non ha saputo fare niente di meglio che adagiarsi nel tran tran ectoplasmatico del governo Monti. Ma, giunti alle primarie, la macchina del partito in mano al segretario Bersani lo schiaccia: così, nell’ottobre del 2012, per Matteo Renzi tutti i giochi sembrano rimandati a chissà quando. E invece essi si riaprono del tutto inaspettatamente dopo solo pochissimi mesi. Accade infatti che il Pd bersaniano «non vince», cioè perde clamorosamente, le elezioni politiche. E le perde – terzo fatto importantissimo – proprio perché una parte dei suoi elettori reali o potenziali, in fuga da altre formazioni, si fa attrarre dal Movimento 5 Stelle. Perlopiù questi elettori non hanno nulla di eversivo e di fascista, sono semplicemente degli «arrabbiati», dalle idee molto confuse e approssimative, ma orientati a sinistra: non a caso l’ormai azzoppato Bersani cercherà, anche se inutilmente, di convincerli ad appoggiare il suo tentativo di governo.
È proprio il successo di Grillo nei confronti del Pd, comunque, il fatto cruciale che rimette in gioco Renzi. Il quale solo a quel successo, non ad altro, deve se nel giro di pochissimo diventa l’unica speranza della stragrande maggioranza del popolo progressista (e non solo) che servirà a condurlo dapprima al successo nelle seconde primarie del dicembre 2013, contro l’apparato compassatamente incartapecorito del Pd, e poi alla vittoria odierna. Quella che si è avuta in Italia nel 2012-2013, insomma, è stata una specie di manovra a tenaglia condotta separatamente da Renzi e Grillo – dal primo sul versante della più spregiudicata cultura riformista, e dunque diciamo così da destra; dal secondo sul versante del populismo radicale e moraleggiante, e dunque diciamo così da sinistra – che insieme hanno avuto l’effetto di far saltare, disarticolare e ricomporre secondo linee nuove, l’ambigua e pietrificata compattezza ideologica calata da un ventennio e più sull’elettorato pds, ds e infine pd. Accrescendone altresì, in tal modo, le possibilità espansive.
Da tutto ciò è possibile trarre almeno una considerazione, mi pare. E cioè che l’Italia di sinistra ha nel suo complesso, rispetto all’Italia di destra, un’assai maggiore capacità di reazione, di intelligenza delle cose, di invenzione, e di automobilitazione politica. Impulsi di rottura dal basso (sottolineo: dal basso), sfide coraggiose, la comparsa di volti e di proposte nuove, è più facile che si verifichino nella prima che nella seconda. Basta per l’appunto vedere quanto è accaduto negli ultimi tre anni sui due versanti opposti dello schieramento politico. Come questi hanno reagito alle altrettanto gravi crisi di leadership e di orientamento che li hanno colpiti al momento della crisi storica del berlusconismo.
Sul versante della destra-centro si è reagito con inutili scomposizioni e ricomposizioni di vertice (dal Pdl a Forza Italia e poi Ncd, Fratelli d’Italia, Scelta Civica, e compagnia bella), all’insegna della più rigorosa continuità oligarchica e dei soliti noti. Assenti comunque qualunque idea o proposta politica percepibile come nuova o dotata di una minima capacità dirompente, così come un volto nuovo che fosse uno (l’ottimo Toti, infatti, non è un volto, è una decalcomania). A sinistra, invece, è innegabile che si sia avuto l’emergere di figure e idee nuove (qui non interessa se più o meno discutibili), e perciò di discorsi e accenti almeno in parte in forte sintonia con il mutare dei tempi. Il risultato elettorale di domenica rappresenta in buona parte la pura e semplice presa d’atto di questa fondamentale diversità tra le due Italie politiche.