Il «discorso della speranza» di Sergio Mattarella è stato uno dei più intensi e profetici dei suoi dieci messaggi di auguri alla Nazione. E averne cancellato il senso e i tanti richiami ad aggiustare la rotta di questa Italia, e in generale delle democrazie sotto evidente attacco, è un calcolo politico miope
La gioia di tutti per l’improvvisa e liberatoria scarcerazione di Cecilia Sala. Il plauso di tutti per la fulminea e sapiente regia di Giorgia Meloni, che ha poi affrontato la conferenza stampa, a lungo attesa, con l’indiscutibile vantaggio del capolavoro diplomatico appena portato a termine. Tra i risultati, certamente non voluti, di queste ore di gloria della premier c’è anche l’aver definitivamente archiviato un appello al Paese che meritava ben altra eco: quello di fine anno del presidente della Repubblica. Passate le feste, svanito l’incanto.
Anzi, l’incanto è durato ancora meno, giusto i quindici minuti in cui il capo dello Stato ha guardato negli occhi dieci milioni di italiani, il 31 dicembre 2024. Poi più niente, a parte generici e pallidi applausi. Eppure il «discorso della speranza» di Sergio Mattarella è stato uno dei più intensi e profetici dei suoi dieci messaggi di auguri alla Nazione. E averne cancellato il senso e i tanti richiami ad aggiustare la rotta di questa Italia, e in generale delle democrazie sotto evidente attacco, è un calcolo politico miope e una deliberata rinuncia a farne tesoro.
Forse non è ancora troppo tardi per recuperare i semi gettati da Mattarella in quel pacato ma denso quarto d’ora. E il seme più prezioso è proprio quello che chiude il ragionamento e merita di dare il titolo all’intero messaggio: la parola «speranza», la più forte e inattesa tra le 1912 da lui pronunciate, la più necessaria in un momento dove prevale il suo contrario, cioè la disillusione, lo scoramento, la rassegnazione. «La speranza siamo noi, il nostro impegno, la nostra libertà, le nostre scelte».
Perché questo richiamo a farsi carico, ciascuno per la sua parte, di una ripartenza che non sia soltanto economica ma anche civile, morale, sociale? Si usa dire che il Presidente ha volato alto. Tradotto: non ha disturbato il manovratore, si è tenuto largo rispetto alle pratiche di chi governa, ha ribadito princìpi generici su cui è difficile eccepire. È vero il contrario. Con la voce senza mai un tocco enfatico, Mattarella ha messo in ordinata fila molti degli argomenti che aveva già toccato negli ultimi mesi, spronando a prendere atto che non tutto sta andando per il meglio. Partendo da un dato illuminante sulla cecità dei manovratori in generale: 2.443 miliardi di spese in armamenti, cifra record, 8 volte di più che per riparare l’ambiente. Riflessioni significative su questo rilievo documentato dal Presidente? Zero. Come per gli altri che ha sollevato, d’altronde.
Il richiamo all’urgenza di pace, a fronte dell’inferno di Gaza, degli ostaggi israeliani, dell’Ucraina, che diventa un monito a ricordare il diritto di ogni popolo alla dignità e a non sottomettersi a chi aggredisce, con un’avvertenza neanche sfumata ai simpatizzanti putiniani. L’angoscia per l’ingiustificabile arresto in Iran di Cecilia Sala (allora era ancora ostaggio di quel regime) che gli dà lo spunto per sottolineare il valore dell’informazione libera, dove la terra brucia ma anche, sottinteso, ovunque sia mal sopportata e quindi ostacolata, tendenza in atto anche nel liberale Occidente, di qua e di là dell’Oceano. «In questo periodo sembra che il mondo sia sottoposto a un’allarmante forza centrifuga, che radicalizza le contrapposizioni e lacera le pubbliche opinioni. Faglie profonde attraversano le nostre società. Aumenta in modo esponenziale la ricchezza di pochissimi mentre si espande la povertà di tanti».
Rappresentazione incontestabile, in forza di numeri e di evidenze sempre più marcate, con l’America di Trump-Musk già impegnatissima a minacciare la Groenlandia e a portare divisione ovunque, a cominciare dall’Europa, Italia compresa. E proprio sulla sua Italia che Mattarella concentra il raggio dell’analisi, la critica pensata come stimolo, il bisogno di una rinnovata speranza plurale.
«I dati dell’occupazione sono incoraggianti, così quelli dell’export e del turismo». Quindi? «E quindi stride il fenomeno dei giovani che vanno all’estero in assenza di alternative, la diseguale disponibilità di servizi tra Nord e Sud, le liste d’attesa per esami medici che si allungano, l’aumento delle persone che rinunciano alle cure perché prive dei mezzi necessari». Cose risapute, anche se tenute sottotraccia, come il lavoro povero o cassaintegrato, le aree di precarietà, i salari bassi, i troppi incidenti mortali «che si possono e si devono prevenire».
Cose che il presidente riporta tutte in primo piano. Mettendoci accanto il termine scelto come simbolo dalla Treccani, «rispetto», ed estendendolo a ogni persona, compresi i detenuti «che devono poter respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti all’illegalità e al crimine». Arduo non ripensare all’infelice uscita del sottosegretario Delmastro sul non lasciare respiro ai carcerati nelle nuove auto pensate per la Penitenziaria.
Come arduo non immaginare un soprassalto della premier Meloni quando Mattarella ha esposto il suo concetto di patriottismo. Per lui è quello dei medici del pronto soccorso, degli insegnanti, dei volontari, e anche di chi viene da altri Paesi ma fa propri i valori e le leggi italiane, «contribuendo ad arricchire la nostra comunità».
Per garbo istituzionale e consumata astuzia, il capo del Governo ha ringraziato il capo dello Stato proprio per questo passaggio sulla patria, anche se è evidente che le due visioni su un concetto diventato così dirimente non sembrano esattamente convergenti. C’è la madre patria, accogliente e garante di pari diritti per tutti i suoi figli, naturali e acquisiti, e c’è la patria come terra dei padri, bandiera da issare sul fortino e da difendere, anche con sbrigativa fermezza, specie contro le ondate di invasori che vengono dal mare. Il dibattito tra quale delle due opzioni scegliere non è neanche cominciato. Grazie, presidente, passiamo oltre.
Come è stato prestamente archiviato il riferimento di Mattarella al 2025 come ottantesimo anniversario della Liberazione, «fondamento della Repubblica e presupposto della Costituzione». Liberazione «da tutto ciò che ostacola la democrazia» e da chi per un ventennio l’ha violentemente soppressa. Il riferimento, implicito ma inequivocabile, è al fascismo e alla sua volonterosa collaborazione ai crimini del nazismo. La risposta indiretta al richiamo storico di Mattarella è venuta qualche giorno dopo da via Acca Larentia in Roma, con milletrecento saluti romani a onorare la memoria di tre giovani militanti missini uccisi nel 1978 da un commando di estrema sinistra, con il brivido di un’adunata di nero vestita, fiera di rispondere «presente» ad ogni richiamo ai «camerati». Al momento, un solo identificato dalle forze dell’ordine: un trentenne che ha gridato «viva la Resistenza».
La speranza siamo noi, ha insistito il nostro presidente: speranza contro il montante ispirarsi a un passato che la nega, contro il deserto di relazioni che porta a disinteressarsi del bene pubblico, contro i rischi di una democrazia senza popolo se non si interromperà la curva pericolosa dell’astensionismo. Ma tutte queste parole si avviano ad andare perdute, archiviate come un bel quadro a ricordo della Costituzione «più bella del mondo», sopraffatte dal frastuono del chissenefrega.