21 Novembre 2024

Le scelte economiche solo annunciate (per ora) da Trump non devono spaventare. L’Europa può e deve trovare una strada propria

La lezione della precedente amministrazione Trump è che sulle questioni che considera davvero importanti il nuovo presidente negozia in prima persona e con un’attitudine «commerciale», cioè con pochi pregiudizi ideologici e interessato solo ai vantaggi che gli Stati Uniti possono trarre dal risultato finale. Questo approccio sembra confermato dalla scelta dei nuovi ministri che finora sta premiando la fedeltà più che l’esperienza. Sbaglierebbe quindi chi pensasse che i dazi siano il suo obiettivo, forse tranne che con la Cina. È vero che durante la campagna elettorale Trump ha detto ad un pubblico di imprenditori «Per me la parola più bella del dizionario è dazio». E a giudicare dagli applausi che ha ricevuto, molti imprenditori americani pensano che i dazi aiuterebbero i loro profitti. Trump dice aiuterebbero anche i salari dei lavoratori. Ma i dazi non possono aumentare contemporaneamente i redditi dei lavoratori e i profitti delle imprese, perché minano l’efficienza dell’economia statunitense, imponendo costi ai consumatori e ai produttori che comprimono il reddito nazionale. Il risultato più probabile è che entrambi, lavoratori e proprietari di aziende soffrirebbero. Nel biennio 2018-19, quando Trump impose dazi su migliaia di prodotti per un valore di circa 380 miliardi di dollari, questo si tradusse in maggiori imposte per famiglie e imprese americane. Imposte pari a 80 miliardi di dollari, equivalenti ad «uno dei più grandi aumenti di tasse degli ultimi decenni» (Stime della Tax Foundation, un’istituzione bipartisan che studia gli effetti della politica fiscale negli Usa). La minaccia dei dazi è solo un costoso strumento negoziale da usare per indurre l’interlocutore a mettere sul tavolo una contro-proposta.
Affrontare una discussione sui dazi minacciando che ad una tariffa sul vino italiano risponderemmo con una tariffa sugli hamburger americani non è quindi una buona idea. Bisogna essere più scaltri, capire che cosa davvero interessi al neo-eletto presidente in questo mandato. E rendersi conto che la sua preoccupazione è legata alla macroeconomia, più che agli aspetti commerciali.
L’Unione europea ha un eccesso di risparmio: investe al proprio interno 350 miliardi di euro in meno di quanto non risparmi. Questi 350 miliardi di extra risparmio vengono investiti altrove nel mondo, in progetti certamente redditizi, ma che ci possiamo permettere, come spesso dice Trump, solo perché qualcun altro, e cioè l’America, paga per la nostra difesa.
Quando si aprirà un negoziato commerciale con la nuova amministrazione, l’Europa dovrebbe iniziare sgombrando il campo dal tema della difesa. Riconoscendo che per ottant’anni abbiamo goduto pressoché gratuitamente della protezione militare americana. Dovremmo dire che ora siamo pronti a farci carico dei costi della Nato. E magari con una quota che eccede il nostro peso nell’Alleanza per compensare, almeno in parte, i benefici ricevuti nel passato.
Si tratta di qualche punto di Pil all’anno. Finora gli unici Paesi Ue che contribuiscono al bilancio della Nato con una cifra pari ad almeno il 2% del loro Pil (come prevedono gli accordi dell’Alleanza) sono quelli dell’ex Unione Sovietica (e non tutti) più Grecia e Finlandia. Gli Stati Uniti contribuiscono con il 3,5% del loro Pil (dati 2023).
Dove trovare le risorse per aumentare i contributi alla Nato? Come detto, l’Ue ha un surplus di risparmio pari al 3% circa del Pil. Sono risparmi che le famiglie europee investono fuori dall’Europa: in piccolissima parte in aiuti ai Paesi poveri, in gran parte in investimenti privati in altre parti del mondo.
Si tratta di cambiare le priorità. I Paesi che non raggiungono la soglia del 2%, ad esempio l’Italia, dovrebbero emettere più debito nazionale, in questo modo assorbendo un po’ dell’eccesso di risparmio, e usarlo per finanziare la Nato.
Trump non solo vorrebbe che contribuissimo di più alle spese della Nato, vorrebbe anche che contribuissimo acquistando prodotti americani, non europei. Se la prima richiesta è ragionevole, la seconda non lo è. Dobbiamo essere disposti a pagare un conto più salato, ma poi la Nato deve decidere i suoi acquisti in modo concorrenziale, acquistando da chi produce i beni più efficienti e più convenienti, in Europa o altrove. Oggi gli Stati Uniti sono favoriti perché alcuni beni, alcuni aerei militari ad esempio, li producono solo loro. Gli europei dovranno diventare più competitivi, ma molte aziende europee già sono all’avanguardia nel settore militare e aerospaziale, ad esempio, in Italia, Fincantieri e Leonardo. La soluzione è favorire le aggregazioni affinché ne possano nascere altre.
Si tratta di raccogliere la sfida lanciata da Trump. Ma cominciamo col dire che i dazi sono un modo stupido per ridurre il surplus commerciale dell’Ue, perché danneggerebbero gli europei, ma anche gli americani. Se l’Europa iniziasse dicendosi disposta a spendere di più per la Nato, e domani per la ricostruzione dell’Ucraina, dimostrerebbe di comportarsi da adulta. Perché impiegare risorse per costruire armi non è un’idea intelligente, ma solo in un mondo ideale. Non in questo, nel quale Putin ha voluto, una volta di più, dire al mondo, con la forza e l’aggressione, che un popolo non può decidere del suo futuro.

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