23 Novembre 2024

L’impressione è che molto presto il governo dovrà dare una sfoltita alla sua agenda, selezionare gli impegni

Sovraccarico. Facciamo un elenco, alla rinfusa, dei compiti che ufficialmente si è assunto il governo. Attuazione del Pnrr, riforma della giustizia, riforma della pubblica amministrazione, riforma delle istituzioni scolastiche all’insegna della ricostituzione del merito, riforma fiscale, rafforzamento del sistema di difesa e di sicurezza, rilancio dell’occupazione del Mezzogiorno (condizione indispensabile per superare l’assistenzialismo tipo reddito di cittadinanza), abbattimento dei tempi di realizzazione delle opere pubbliche (c’è pure il ponte sullo Stretto!). E poi autonomia differenziata, presidenzialismo. All’elenco vanno aggiunte le complicate negoziazioni in sede europea (la partita dei fondi comunitari, una nuova politica di contrasto all’immigrazione clandestina, eccetera). La lista è sicuramente incompleta. Nemmeno una compatta squadra di preparatissimi mandarini cinesi dediti anima e corpo al servizio dell’imperatore, riuscirebbe a fare, in cinque anni (quanti ne dura una legislatura), la metà delle cose elencate. Figurarsi una coalizione di governo con diverse anime in competizione e che, per di più, ha al suo interno, oltre a persone di qualità, perfettamente adeguate per il ruolo che ricoprono, anche altre (affaire Delmastro-Donzelli) che non lo sono. Si aggiunga il fatto che l’Italia è una democrazia con un governo istituzionalmente debole, vincolato da più numerosi e più forti poteri di veto di quelli che condizionano gli esecutivi di altre democrazie (come Gran Bretagna, Francia, Spagna).
L a questione del sovraccarico non è una novità. È l’effetto della somma di mali antichi e nuovi. C’è sempre stata una differenza fra i Paesi nei quali unificazione nazionale, industrializzazione e democratizzazione si sono scaglionate nel tempo e quelli (come l’Italia) in cui queste tre sfide della modernità si sono presentate quasi contemporaneamente: ove la costruzione dello Stato, la rivoluzione industriale e la rivoluzione democratica si sono sovrapposte. Provocando ingorghi, affollamento di problemi di ogni genere, e divisioni mai superate. I Paesi del primo tipo sono in genere riusciti a dare vita a democrazie più stabili e solide di quelli del secondo tipo. Il sovraccarico dei problemi ha sempre obbligato i governi italiani a scegliere fra l’inattività, l’immobilismo, e un attivismo frenetico e inconcludente.
L’incapacità di affrontare con successo la somma dei mali antichi (come l’inefficienza della pubblica amministrazione) e dei nuovi ha molte cause. Si consideri il ruolo della demografia. Una società invecchiata — e che continua ad invecchiare a ritmo accelerato — è difficilmente propensa ad assecondare grandi cambiamenti. Lo può fare un Paese giovane che ha interesse ad investire sul futuro. Non una società che per ragioni anagrafiche è per lo più interessata solo al presente. Dirà qualcuno: lo farà comunque per i propri figli e nipoti. Ma una società che invecchia, per definizione, di figli e nipoti ne ha pochi.
C’è sempre stata, nella politica italiana, una frattura fra la retorica del cambiamento di cui sono intessuti i messaggi dei politici agli elettori e la reale disponibilità dei cittadini a fornire ai governi il consenso necessario per realizzare le grandi innovazioni promesse. Una cosa è votare per un partito che si dice pronto a fare una sorta di «rivoluzione dall’alto», un’altra cosa è continuare a sostenerlo quando si passa (se si passa) dalle parole ai fatti, se esso si impegna davvero in politiche di riforma.
Anche ammesso (cosa che è sempre da verificare) che i riformatori possiedano idee chiare e le solide competenze tecniche necessarie, gli interessi lesi riusciranno comunque a mobilitare settori dell’opinione pubblica facendo fallire in molti casi le riforme o riuscendo, negli altri casi, a edulcorare, a rendere poco incisiva, l’azione del governo. Si pensi ai settori della scuola o della pubblica amministrazione. Sono da decenni cantieri aperti, i luoghi da sempre investiti da riforme a getto continuo (una sorta di accanimento terapeutico) ma la distanza fra le promesse riformatrici e i risultati concreti è sempre stata assai ampia.
L’attesa di grandi cambiamenti soddisfa i militanti delle varie fazioni, e mantiene saldo il legame fra militanti e leader, ma poi si scontra con due ostacoli: l’anima profonda (conservatrice) del Paese e i tanti, diffusi, poteri di veto che lavorano, quasi sempre con successo, a difesa dello status quo. Dovrebbe insegnare qualcosa la parabola di Matteo Renzi. Per un brevissimo periodo fu la figura dominante del Paese. Lo aveva in pugno. Sembrò che egli avesse la forza per iniettare molta innovazione nella vita pubblica italiana. Poi, con la stessa velocità con cui era sorta, la sua stella politica tramontò. Pagò l’errore di avere pestato i piedi a troppa gente simultaneamente.
L’impressione è che molto presto il governo Meloni dovrà dare una sfoltita alla sua agenda politica, dovrà selezionare gli impegni. Sarebbe già una grande riforma, una innovazione radicale, se il governo intervenisse sul tema della riserva di legge. Ponendo fine alle gravi disfunzioni che si producono da tempo nel funzionamento della macchina statale. Con il Parlamento che si impiccia della più minuta attività amministrativa (Sabino Cassese, Corriere, 6 febbraio). Si tratterebbe di ridisegnare i rapporti fra Parlamento e pubblica amministrazione in modo da riportare tanto la legge quanto gli atti amministrativi alla loro funzione originaria, ristabilendo i confini fra l’attività parlamentare e quella amministrativa. È vero: non si tratterebbe (a differenza di ciò che promettono di fare gli «ismi»: presidenzialismo, federalismo) di una riforma capace di appassionare il grande pubblico. Ma avrebbe effetti duraturi e benefici sullo Stato e sui rapporti fra Stato e società.
Il governo Meloni, probabilmente, si sente in una botte di ferro tenuto conto dello stato comatoso del Pd e della frammentazione dell’opposizione. Ma anche se, come è possibile, la condizione di impotenza della opposizione dovesse durare a lungo, il declino della popolarità del governo ci sarebbe comunque prima o poi. Tra non molto, i suoi margini di manovra — già ristretti a causa delle scarse risorse disponibili — si ridurranno ulteriormente. Gli occorrerà molto realismo per non essere schiacciato dal sovraccarico dei problemi.

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