Non solo non c’è stata la recessione dovuta alle sanzioni contro la Russia, ma sono cresciute le esportazioni
Dovremmo imparare qualcosa dall’Apocalisse che non è mai avvenuta. Un anno fa a quest’epoca l’Occidente cominciava ad applicare le sanzioni economiche contro la Russia. Ne seguì uno psicodramma nazionale, sui danni tremendi che ci saremmo auto-inflitti con quelle sanzioni. Nel discorso pubblico giganteggiavano delle emergenze presentate come certezze. Una maxi-recessione con crolli di reddito e di occupazione doveva abbattersi su di noi, causata dalla perdita del mercato russo e dal rincaro energetico. Avremmo passato un inverno al gelo. Le penurie alimentari, oltre ad affamare il popolo italiano, avrebbero gettato in una carestia senza precedenti il «grande Sud globale»: con guerre civili e altre gigantesche ondate di profughi verso le nostre terre.
Un anno dopo, nulla di tutto ciò si è verificato. L’arrivo di una recessione continua a slittare, forse potrebbe non verificarsi, in ogni caso sarebbe la conseguenza delle strette monetarie varate per domare l’inflazione, non delle sanzioni. Sul mercato del lavoro fa notizia la difficoltà delle imprese a trovare la manodopera di cui hanno bisogno. I flussi migratori da Sud a Nord — pur segnati dai tragici eventi del Mediterraneo — non hanno subito variazioni di rilievo. Non abbiamo passato l’inverno al gelo. Il gas oggi costa meno di prima della guerra.
Un dato spicca su tutti, è l’exploit delle esportazioni italiane in questi dodici mesi che dovevano essere rovinati dall’impatto delle sanzioni. L’export del made in Italy ha conosciuto un rialzo del 20% nel 2022. All’interno di questo dato già brillante si segnala un successo regionale che è perfino sopra la media nazionale. Il Friuli Venezia Giulia ha fatto ancora meglio, le sue esportazioni sono cresciute del 22,3%. Eppure è un territorio che confina con i Balcani, proiettato a Oriente, abituato a esportare (anche) sul mercato russo. Per spiegare l’anno felice del «made in Italy», la chiave ce la fornisce l’Istat: è il formidabile incremento negli acquisti di prodotti italiani da parte degli Stati Uniti (+22,5%).
La distanza dalle profezie apocalittiche di un anno fa è abissale. Ci impone di analizzare le cause di una previsione così clamorosamente sbagliata. La Russia — proprio per l’incapacità di Putin di modernizzarla — ha un’economia minuscola: pesa un quattordicesimo di quella americana, non si classifica tra le prime dieci economie del pianeta. Partendo da questa realtà ci vuole molta immaginazione per trasformare la perdita del mercato russo in una catastrofe. Viceversa, ciò che è avvenuto all’economia italiana nel 2022 ci ricorda a quale mondo apparteniamo. Il concetto di Occidente non evoca soltanto una realtà geopolitica, un sistema di alleanze, un modello di valori al quale ci sforziamo di essere fedeli: è anche un aggregato di interessi materiali, costruito in molti decenni di scambi commerciali e investimenti. I nostri mercati di gran lunga più importanti sono e resteranno sempre dislocati sull’asse atlantico, situati nell’Unione europea e nel Nordamerica.
Un altro allarme da ridimensionare riguarda il costo dei nostri aiuti all’Ucraina. Un’illusione ottica li ingigantisce, e non solo in Italia. Come ha osservato lo storico inglese dell’economia Adam Tooze, chi sta facendo di più in assoluto per sostenere l’Ucraina, cioè gli Stati Uniti, ha speso finora lo 0,2% del suo Pil per fornire assistenza economica, umanitaria e militare a Kiev. Tutti gli altri hanno fatto molto meno. È sempre Tooze a ricordarci un confronto: la Germania spese il triplo nel 1991 per contribuire alla coalizione che cacciò l’esercito iracheno di Saddam Hussein dopo l’invasione del Kuwait.
Il grosso di quanto abbiamo speso «per l’Ucraina», in realtà lo abbiamo dato a noi stessi: aiuti pubblici per attutire l’impatto del caro-energia sulle nostre famiglie e imprese. All’Ucraina sono andate le briciole, in confronto. E non parliamo di armi, dove la spesa aggiuntiva è inesistente: abbiamo attinto ai nostri arsenali, peraltro molto sottili. Le promesse di adeguare al 2% del Pil i nostri investimenti per la difesa — che erano state prese solennemente molti anni fa, prima dell’invasione dell’Ucraina — continuano ad essere rinviate, a Roma e a Berlino.
Dopo aver constatato che anche questa Apocalisse era un’allucinazione, dovremmo concederci un riconoscimento. Se i danni paventati non si sono verificati, lo dobbiamo ai due ingredienti del modello occidentale: l’economia di mercato e la democrazia. Il sistema capitalistico è fatto per reagire con flessibilità agli shock esterni, per esempio con i risparmi energetici e le innovazioni sostenibili nel mondo delle imprese. La liberaldemocrazia è per sua natura reattiva di fronte ai disagi dei cittadini, lo si è visto nella prontezza con cui le risorse pubbliche sono state mobilitate per attenuare il caro-bollette. Imprese e governi hanno lavorato insieme anche per accelerare la diversificazione delle nostre fonti di approvvigionamento. Un anno fa nessuno immaginava che ci saremmo emancipati così velocemente dal gas russo. Un po’ più di autostima verso il «nostro sistema» non guasterebbe.
Ma per la stessa ragione per cui ce la siamo cavata così bene negli ultimi dodici mesi, sarebbe ingenuo sottovalutare i segnali che vengono dalle nostre opinioni pubbliche. A torto o a ragione, i sondaggi indicano un calo nel sostegno all’Ucraina, in America come in Italia. Questo sostegno rimane maggioritario, la condanna di Putin resta dominante, però i segnali di stanchezza ci sono. Nelle democrazie i politici sono reattivi a questi segnali. Vedi la risalita nei sondaggi di Donald Trump che si presenta come «l’unico capace di evitare la terza guerra mondiale». È per questo che negli Stati Uniti si discute di uno scenario coreano, evocando la guerra che fu congelata sul 38esimo parallelo nel 1953, dopo tre anni di combattimenti. Quella guerra non fu mai conclusa da un vero trattato di pace, anzi il confine tra le due Coree resta pericolosissimo, però la soluzione all’insegna del «meno peggio» ha consentito alla Corea del Sud di stravincere la lunga «tregua» degli ultimi 70 anni, diventando una prospera, civile, avanzatissima democrazia. La Russia non è la Corea del Nord, per congelare il conflitto attuale bisogna che l’Ucraina riceva delle garanzie molto solide sulla sua sicurezza presente e futura. La strada è ancora lunga. Di sicuro a Washington la ricerca di una via d’uscita verrà accelerata dall’avvicinarsi dell’elezione presidenziale nel 2024.