Il discorso di Trump davanti ai suoi sostenitori. Si profila un orientamento più radicale nella gestione del potere
«Governerò secondo un semplice motto: promesse fatte, promesse mantenute. Manterremo le nostre promesse. Niente mi impedirà di mantenere la parola data a voi, il popolo». Questa frase è la chiave del discorso che Trump ha tenuto davanti ai suoi sostenitori per celebrare una vittoria elettorale nitida, indiscutibile. Trump ha ottenuto la rielezione, il controllo di Senato e Camera dei Rappresentanti e, con milioni di voti di differenza, il consenso popolare. Voto popolare che negli ultimi quarant’anni i democratici avevano perduto solo tre volte, con Mondale, Dukakis, Kerry.
La sua seconda presidenza non sarà come la prima, che si è svolta, diciamoci la verità, sotto l’occhiuta vigilanza di quel «Deep state» che oggi il tycoon individua come il suo peggior nemico. Assomiglierà semmai alla conclusione di quel quadriennio con l’assurdità dell’assalto al Campidoglio, un atto antidemocratico di cui non è lecito dimenticarsi e che costituisce uno spartiacque nella storia dell’occidente in questo nuovo millennio. Guardare quello che sta accadendo con le lenti interpretative del Novecento, persino con le parole di quel secolo breve e travagliato, è inutile, non solo sbagliato. Tutti ci siamo detti tante volte, con Vico e con Marx, che la «storia si ripete due volte».
Ma non è vero, la storia non si ripete mai. Anche quello che assomiglia al passato ha una sua irriducibile originalità. Per comprendere la quale bisogna spogliarsi delle armature passate: non si può leggere questo tempo digitale con gli strumenti dell’analogico. Tutto quello che sta accadendo, da dieci anni a questa parte è nuovo e rivoluzionario. Lo è il mutamento dei paradigmi di uno dei soggetti che in Occidente, non solo negli Usa, conquista crescente consenso. Si può dire quello che si vuole, ma l’inedita destra ha immaginato una risposta strategica al malessere di questo tempo. Risposte estreme, semplificate, sottratte all’onere della coerenza, della realizzabilità — come la promessa dell’arrivo imminente de «l’età dell’oro» — capaci di cavalcare rancore sociale e desiderio di riscatto da una condizione di precarietà che ha diffuso nella società il più temibile dei sentimenti: la paura.
La destra, la nuova destra, ha un’idea. Racconta che la sinistra è il potere, il passato, l’establishment. E non importa che lì a incarnare la nuova figura di difensori del popolo siano multimiliardari. Il novecento è finito, con il suo bagaglio organicistico e i suoi vincoli di credibilità e coerenza.
Ora il tempo è solo il presente.
Per capire l’America di questi anni è utile leggere i tre volumi che Bob Woodward ha dedicato alla trasformazione del Paese che lui stesso scosse con il Watergate, che oggi sembra una ragazzata.
«Paura», «Pericolo», «War», pubblicati da Solferino, scandiscono la trasformazione del potere e del suo rapporto con il popolo. Woodward racconta ciò che Steve Bannon, l’ideologo di questa nuova strategia, disse nel 2016 a Trump per orientarlo: «La Clinton è il tribuno dello status quo, delle élite corrotte e incompetenti che non si fanno scrupolo di lasciare che la nazione vada a rotoli. Lei sarà il tribuno del cittadino ignorato, l’uomo che vuole restituire all’America la sua grandezza. Primo, metteremo fine all’immigrazione illegale di massa e inizieremo a limitare quella legale per riappropriarci della nostra sovranità. Secondo, riporteremo in America i posti di lavoro dell’industria manufatturiera. Terzo ci chiameremo fuori da queste inutili guerre all’estero».
Parole di otto anni fa, ma le stesse usate ora. E per fare questo non esitano a sostituire, nella pratica, il partito repubblicano, considerato un ferro vecchio, con un movimento a guida carismatica.
Nessuno si è chiesto come mai però, quattro anni dopo, Trump abbia perso le elezioni ottenendo sette milioni di voti in meno di Biden. La risposta è che in quei quattro anni il potere si è incarnato in lui e ne ha schiacciato quella immagine di alterità che ora ha riconquistato.
«Niente mi impedirà di mantenere la parola data a voi, il popolo». Bisogna prenderlo sul serio, Trump. Stavolta il Deep state farà più fatica a imbrigliarlo. Il Progetto 2025 dei gruppi più oltranzisti tra i suoi sostenitori prevede infatti qualcosa di molto radicale nella gestione del potere. E il criterio sarà quello degli amici e dei nemici, non il bipartisan. Non il fioretto, la mazza. E lo stesso si applicherà nei confronti dell’Europa o di quei poteri, come la magistratura o la stampa, che sono considerati ostacoli nell’esercizio del governo e nella realizzazione delle promesse. E questo ha a che fare con la parola democrazia.
Musk non è il sostenitore del candidato, è l’ispiratore di una inquietante suggestione di ridefinizione del rapporto tra governo e popolo, tra popolo e intermediazione sociale e politica, persino tra natura, tecnologia, comunicazione e bisogni umani.
E la sinistra? La ricostruzione e l’allargamento, non solo negli Usa, di un consenso che comunque permane forte, passa non per la rincorsa populistica, per il rinculo identitario o per la deriva securitaria. Essere di volta in volta più moderati o più estremisti per reagire alle sconfitte elettorali appartiene al lessico famigliare del novecento. Non sarà il politicamente corretto, catena che finisce con l’imbrigliare la libertà individuale, né l’idea di un populismo della domenica, bramante di richiesta di potere, e neanche la sottovalutazione di un tema che riguarda la parte più povera delle nostre società come la sicurezza, a restituire smalto alla sinistra.
Agli opposti del populismo dovrebbe esserci un progetto di ridefinizione, facendo leva su diritti e opportunità, di come deve essere organizzata, socialmente e democraticamente, la società digitale.
Non sarà difendendo la Fortezza Bastiani de «Il deserto dei tartari» che la sinistra saprà, come è stata capace di fare nei suoi momenti migliori, convertire la paura popolare in speranza di riscatto e garantire le libertà individuali e collettive.