Fonte: Corriere della Sera
di Stefano Passigli
La Commissione banche ha perso l’occasione di segnalare i problemi del sistema creditizio e di indurre così i politici ad affrontare seriamente i temi economici
Al riparo dell’attenzione mediatica incentrata sulla Commissione di inchiesta sul sistema bancario, la Commissione di inchiesta sul disastro della Moby Prince ha concluso i lavori sconfessando l’operato della competente Procura, aprendo la via a nuove indagini, e denunciando carenze nelle operazioni di soccorso nella notte del disastro. Un’opera meritoria che è opportuno ricordare.
Al contrario, la Commissione banche ha scelto di limitare le proprie conclusioni ai soli aspetti del controllo e vigilanza sul sistema bancario, malgrado che lo stesso presidente Vegas, nel tardivo tentativo di porre rimedio alle mancanze nella azione di Consob, avesse indicato in audizione che vi erano state transazioni «anomale» sui titoli delle banche popolari nel periodo antecedente il decreto del governo (particolarmente evidenti nel caso di Banca Etruria). La decisione della Commissione è ancor più criticabile quando si consideri che la Procura di Roma, inizialmente propensa all’archiviazione, aveva dato corso alla nostra richiesta (Corriere del 23 dicembre 2017) di fare trasparenza su tale anomala attività, chiaramente indicativa di evidenti casi di insider trading, inviando alla Commissione il rapporto della Consob in data 29 dicembre.
La decisione di autolimitarsi ha evitato alla Commissione di doversi pronunciare su altre questioni fondamentali per il nostro sistema bancario, quali la situazione dei non performing loans; il percorso verso la Banking Union; il rapporto con gli organi europei di vigilanza; il ruolo del fondo Atlante, protagonista nella disastrosa vicenda delle banche venete ma stranamente non convocato dalla Commissione per un’audizione che sarebbe invece stata di grande importanza per ricostruire il contraddittorio ruolo tenuto da molte nostre istituzioni; e così via. Con la decisione di autolimitarsi la Commissione ha perso insomma l’occasione di segnalare i perduranti problemi del nostro sistema bancario e i suoi riflessi sul sistema produttivo, e di obbligare così la nostra classe politica ad affrontare più seriamente di quanto non stia facendo in questa urlata ma superficiale campagna elettorale i grandi temi di politica economica e di rapporto con l’Europa.
Al di là delle polemiche, nella campagna elettorale i tre maggiori schieramenti — Pd, M5S, e centrodestra — si fronteggiano infatti con programmi e promesse che hanno un fondamentale tratto comune: una forte espansione della spesa pubblica corrente. Il centrodestra, oltre a tagli di specifiche tasse (Imu, donazioni e successioni, etc.) propone una flat tax la cui copertura è affidata a un imprecisato e incalcolato effetto di sviluppo dell’economia. Poco importa che né la più affidabile teoria economica, né l’esperienza dei principali Paesi sviluppati sostengano questa posizione che, allo stato dei fatti, è poco più che uno slogan elettorale, cui inoltre la Lega unisce anche l’annunciata intenzione di abrogare la legge Fornero con l’inevitabile conseguenza di non poter rispettare il vincolo europeo del 3% nel rapporto deficit-Pil.
A queste posizioni si può assimilare anche il programma dei 5 Stelle, fondato sul varo del reddito di cittadinanza, che implica anch’esso una maggiore spesa corrente e un conseguente ulteriore incremento del debito pubblico. Anche se in misura minore questa critica si applica anche al programma del Pd: l’azione dei governi di centrosinistra ha permesso importanti progressi legislativi nel campo dei diritti civili, ma tale merito non si estende alle progettate politiche economiche: infatti, l’estensione del bonus di 80 euro a ulteriori categorie rientra anch’essa tra le misure che incrementano la spesa corrente a scapito del debito pubblico. È infatti ben difficile che questo possa diminuire senza un sostanziale incremento del Pil che — anche nelle previsioni più favorevoli — rimarrà invece ai più bassi livelli europei. Se si aggiunge che il 2018-2019 vedrà un rialzo dei tassi anche in Europa e un venir meno del quantitative easing, appare evidente che le ricette di politica economica che vengono proposte dai tre maggiori schieramenti hanno in comune, al di là delle apparenze, un sostanziale elemento: l’aggravamento della spesa corrente e del debito pubblico. Siamo insomma in presenza di un’irresponsabile propaganda elettorale che poco o nulla ha a che vedere con le politiche economiche e fiscali necessarie a promuovere uno stabile sviluppo della nostra economia. A sottolineare che quest’ultimo richiederebbe una politica di selettivi investimenti pubblici e non un aumento di spesa corrente sono infatti, assieme a numerosi studiosi, alcuni uomini politici (non ultimo il senatore Monti su queste colonne) e partiti minori. Un aumento di spesa corrente può sostenere nel breve termine la domanda interna, ma non può portare a soluzione problemi strutturali quali la disoccupazione giovanile, l’aumentare delle differenze economiche e il diffondersi della povertà, oramai giunta al livello di vera e propria emergenza sociale.
A fronte del coro dei tre maggiori schieramenti impegnati in unasurenchère di promesse irrealizzabili, la voce di chi canta fuori dal coro è soffocata dall’altrui clamore. In queste condizioni è facile prevedere che le attuali promesse elettorali non potranno essere mantenute. Alle tante condizioni di instabilità del nostro Paese questa campagna elettorale rischia così di aggiungere un ulteriore elemento di sfiducia nei confronti della nostra classe politica.