21 Novembre 2024
Parlamento

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Siamo vicini a un passaggio dagli infiniti risvolti. Dopo che il nostro sistema, unico al mondo, è stato costretto ad affrontare il terzo collasso in trent’anni

Per una volta la «politica» italiana è stata pressoché unanime (ha fatto parzialmente eccezione solo il segretario del Pd Enrico Letta). La «politica», ha scritto qualcuno, ora si è presa una «rivincita». Occasione per la rivalsa è stata la conferenza stampa di fine anno di Mario Draghi nel corso della quale il presidente del Consiglio avrebbe lasciato intendere la propria disponibilità a farsi eleggere capo dello Stato. Anziché rendere omaggio al rito ipocrita per cui il candidato deve fingersi sorpreso e riluttante al cospetto di tale eventualità, l’ex presidente della Bce ha fatto capire che, anzi, l’approdo al Quirinale è uno degli esiti possibili del suo passaggio da Palazzo Chigi. L’altro è quello di rimanere dov’è. L’altro ancora, di tornarsene a casa propria. Nulla di ciò è stato da lui detto in modo esplicito. Anzi questi concetti, peraltro ovvi, sono stati espressi con parole garbate, a tratti ironiche, senza alcuna iattanza. Ma tanto è bastato per irritare chi fino a un attimo prima lo sollecitava a pronunciarsi, augurandosi una sua permanenza alla guida del Paese fino al 2023, al 2030 o forse anche al 2050. Così i suoi sostenitori di ieri sono stati lesti a «reagire» con toni stizziti, talvolta scortesi.
Benissimo. Messaggio chiaro: i partiti, tutti, sono impegnati di qui al giorno dell’elezione del presidente della Repubblica a trovare un candidato unitario che possa raccogliere la (quasi) unanimità dei suffragi
fin dal primo voto.
Allo stato degli atti i nomi presi in esame sono quelli dell’ex presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia e del prossimo presidente della Consulta stessa, Giuliano Amato. Draghi, al momento, sembrerebbe fuori dalla corsa al Colle. Forse, con un piede, è fuori anche da Palazzo Chigi. Perché?
In un’altra risposta ai giornalisti, nel corso della conferenza stampa di cui si è detto, il presidente del Consiglio si è pronunciato contro alcune spese assai poco virtuose che i partiti hanno preteso fossero inserite nella manovra di bilancio. Draghi ha messo agli atti — criticando implicitamente il suo stesso operato — che non gli era piaciuto essersi dovuto piegare alla conferma di alcune misure come il cosiddetto superbonus. Misure che — parole sue — creano «distorsioni», favoriscono un «aumento straordinario dei prezzi dei componenti necessari alle ristrutturazioni e all’efficientamento energetico» e, per giunta, incentivano «frodi». D’ora in poi — ha lasciato intendere — ove fosse confermato alla guida del governo, spese del genere, nient’affatto «buone», i partiti dovranno dimenticarsele. Se lui sarà ancora a Palazzo Chigi, si opporrà. Con decisione. Anche a costo di entrare in conflitto con i partiti e le Camere che gli hanno votato la fiducia. Ed eventualmente con il nuovo presidente della Repubblica se questi cedesse alla tentazione di adottare forme di «moral suasion» spendacciona per dar prova di una qualche gratitudine a partiti e Camere che lo hanno eletto.
Questo per dire che siamo in prossimità di un passaggio politico-istituzionale dagli infiniti risvolti. Il nostro sistema, unico al mondo, è stato costretto ad affrontare ben tre collassi negli ultimi trent’anni. Più o meno uno per ogni decennio. E ogni volta si è dovuto chiamare in soccorso un «grande esterno». Il primo cataclisma fu nel 1993 quando — proveniente dalla Banca d’Italia — venne portato alla guida del governo Carlo Azeglio Ciampi (in sostituzione di Giuliano Amato, l’ultimo della Repubblica dei partiti). Sei anni dopo, Ciampi fu eletto presidente della Repubblica, ma non era scritto in partenza che andasse a finire in quel modo. Ciampi fu un buon presidente e difese il principio di alternanza tra centrodestra e centrosinistra, che all’epoca avevano le fattezze di Berlusconi e Prodi. Il secondo infarto fu nel 2011 e stavolta venne convocato a Palazzo Chigi Mario Monti. Contestualmente Giorgio Napolitano nominò Monti senatore a vita, forse anche per metterlo al riparo da eventuali recriminazioni dei partiti. Partiti che votarono sì a suo favore, ma presto sarebbero entrati tra loro in rotta di collisione dal momento che di lì a poco più di un anno ci sarebbero state le elezioni. Gli equivoci all’epoca furono molti. Una delle formazioni che diede la fiducia a Monti, Forza Italia, in tempi successivi sostenne addirittura d’essere stata vittima di un colpo di Stato.
Adesso è la volta di Draghi che fuori dai nostri confini ha ottenuto complimenti e titoli di giornale ancora più entusiastici di quelli riservati ai suoi due predecessori. In Italia invece si è potuto costatare a fine anno quale sia l’umore reale di coloro che lo «sostengono» (l’unica ad essersi pronunciata in suo favore è stata Giorgia Meloni, leader dell’unico consistente partito d’opposizione). Tre volte in cui la «politica» è stata costretta a ricorrere a capacità e «reputazioni» costruite a distanza dell’operato dei partiti. Partiti sordamente irritati quando l’azione di questo genere di capi di governo provenienti da fuori ha avuto successo. E ansiosi di prendersi al più presto quel genere di «rivincita» di cui si è detto all’inizio. Il tutto mentre, come sostiene con parole sorprendentemente esplicite perfino Gustavo Zagrebelsky, almeno «in parte» l’istituzione presidente della Repubblica è stata via via indotta ad appropriarsi «impropriamente» di «compiti e poteri di governo». Un finale di partita non incoraggiante.

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