L’unione europea rischia di diventare il capro espiatorio su cui scaricare ogni responsabilità. Ma non è così
Un’ondata di proteste sta bloccando le strade europee, dalla Romania alla Germania, dall’Irlanda all’Italia. Gli agricoltori si lamentano per i costi crescenti e i redditi calanti e danno la colpa alla Ue, alle misure del cosiddetto Green Deal, il piano avviato nel 2020 per contrastare il mutamento climatico. L’agricoltura vale meno del 2 per cento del Pil europeo, ma produce il 10 per cento del gas serra. È chiaro che questo settore deve fare la sua parte nella transizione verso un’economia sostenibile. Ma quale parte, esattamente? E chi deve decidere?
La ristrutturazione della filiera alimentare implica incisivi cambiamenti nel modo di produrre e massicci investimenti per le aziende agricole. Non sarebbe equo scaricare interamente gli oneri su tali aziende. Di questo si può e si deve discutere. Le barricate sulle strade e gli insulti ai burocrati di Bruxelles non sono però uno strumento accettabile. Le legittime e comprensibili rivendicazioni della categoria devono rispettare i paletti del negoziato istituzionale e non possono mettere in discussione gli obiettivi che i governi nazionali e il Parlamento europeo hanno congiuntamente e democraticamente definito a Bruxelles. La sostenibilità è un bene collettivo cruciale, su cui non si può transigere. E il Green Deal lascia ampi margini di flessibilità per venire incontro alle esigenze degli agricoltori, senza compromettere l’interesse di tutti. A giudicare dalle manifestazioni e dagli slogan di questi giorni, c’è il rischio che il disagio del mondo rurale cada nella trappola della protesta populista. Il meccanismo è ben noto: si crea una artificiosa contrapposizione fra una platea indifferenziata (i nove milioni di agricoltori Ue, ciascuno con specifiche sfide da affrontare) e la supposta élite tecnocratica di Bruxelles, incapace, vessatoria, al servizio di qualche non precisato potere forte. La Ue diventa così il nemico da combattere, il capro espiatorio su cui scaricare ogni responsabilità per i danni subiti.
Nel passato il populismo ha già seminato vento nelle campagne francesi, ad esempio con le mobilitazioni anti-globaliste degli anni Novanta guidate da Joseph Bové e la sua Confédération Paysanne . Oggi l’agro-populismo è invece sobillato dai partiti di estrema destra o sovranisti, come il Front National, Alternative für Deutschland, il partito di Wilders in Olanda e ora anche quello di Salvini. Con l’avvicinarsi delle elezioni europee del prossimo giugno è assai probabile che questi partiti cerchino di cavalcare e amplificare le proteste e si sforzino di saldare il risentimento degli agricoltori con le istanze sovraniste. Una simile operazione può avere successo, però, solo depotenziando o addirittura negando l’emergenza ambientale. Nemmeno i politici più opportunisti o disinformati possono oggi pensare di affrontare tale emergenza a livello locale, magari «chiudendo i confini». Una seria ed efficace politica di contrasto può essere impostata solo a Bruxelles. La transizione verde è una necessità ineluttabile che interessa tutta la società, campagne incluse. E non può essere un pasto gratis: a qualcosa si dovrà rinunciare. Come quasi tutte le politiche pubbliche, anche quelle ambientali devono differenziare il loro impatto (in termini di costi e sacrifici) a seconda dei danni che ciascun settore o categoria produce. Siccome il vantaggio è collettivo — un eco-sistema sostenibile — è giusto che vi siano compensazioni a carico del bilancio pubblico. Sin dai suoi esordi, la Ue ha sempre riservato all’agricoltura una particolare attenzione, anche sul piano dei sussidi. Più di un terzo (quasi 300 miliardi di euro) dell’intero bilancio comunitario 2023-2027 è destinato alla nuova Politica Agricola Comune. Ogni anno, quattro miliardi di euro verranno riservati alle imprese di piccole dimensioni. È prevista poi l’istituzione di un fondo dedicato ad alleviare gli eventuali shock di prezzo e le emergenze naturali. Nel 2023 sono stati erogati 500 milioni di euro alle aziende più colpite dalla crisi.
Ci vogliono più fondi? Si devono aggiungere altri tipi di intervento, rendere le procedure burocratiche meno gravose? Parliamone. Anche per rispondere alle manifestazioni di protesta, il 25 gennaio scorso Ursula von der Leyen ha dato avvio al «Dialogo strategico sul futuro dell’agricoltura», un foro permanente per discutere dei modi e dei tempi dell’aggiustamento. Una nuova arena si è così aggiunta a quelle già esistenti per negoziare in modo pacato le istanze di categoria. I blocchi stradali, le bandiere bruciate, i proclami minacciosi polarizzano le posizioni, attirano gli agitatori, inaspriscono i conflitti. E impediscono o rallentano l’unica cosa che serve: un confronto costruttivo per trovare un compromesso, nel segno dell’equità e della ragionevolezza.