22 Novembre 2024
Proteste Iran testimonianze dissidenti

Proteste Iran testimonianze dissidenti

La testimonianza di due giovani studentesse del movimento della rivoluzione iraniana appena arrivate nel nostro Paese: «Il mio fidanzato non mi riconosce per gli elettroshock che ha subito»

«Sventrare». Il traduttore ci mette qualche secondo a trovare la parola italiana che meglio traduca quella in farsi appena pronunciata da Malika. Dice: «Il regime ci sventra». Corpi, case, vite, pensieri. Melika e Aazam — nomi di fantasia — sono due ragazze iraniane di Mashhad e Tabriz, hanno 20 e 21 anni, e sono appena arrivate in Italia dopo aver attraversato la Turchia. Sono scappate dalla Repubblica islamica che le vuole punire per aver preso parte alle manifestazioni degli ultimi mesi e perché non portano il velo.
Melika e Aazam sono loro. Sono Mahsa, Nika, Sarina, Ghazaleh, Hananeh, Aylar. Studiano filosofia e medicina, non appartengono a nessun gruppo politico, hanno Instagram e TikTok. Sono le ragazze del movimento Donna, vita, libertà che abbiamo imparato a conoscere attraverso le storie di smisurato coraggio che, spesso, l’indicibile brutalità del regime dell’ayatollah Khamenei ha punito con la violenza e la morte.
«Non registrate, vero?», ci chiedono, spaventate. «I pasdaran possono entrare anche nelle vostre case e farvi del male». Sono così impaurite che il citofono diventa un allarme che le fa saltare sul divano. «Prendo psicofarmaci. Lo psichiatra mi ha diagnosticato il disturbo traumatico da stress. La notte mi alzo ancora a controllare se c’è qualcuno fuori dalla porta», racconta Aazam che è stata interrogata dalla polizia sette volte in sei mesi. Anche Melika è in cura: «Da quando mi hanno portata in carcere, ho attacchi panico e incubi». Ogni tanto si fermano e sussurrano parole in farsi. Si consultano prima di raccontare quello che hanno visto e subito. «La verità, da noi, ha un prezzo molto alto», spiega Melika. Poi inizia: «A novembre, le guardie mi hanno trascinata fuori dalla macchina perché ero senza velo e suonavo il clacson in solidarietà con le proteste. Mi hanno picchiata e costretta a salire in motocicletta, schiacciata tra due uomini. Quello dietro si strusciava su di me. Sapevo esattamente che cosa mi sarebbe successo: l’avevo sentito in mille racconti». Arrivata nel centro di detenzione, le hanno coperto gli occhi e l’hanno interrogata ferocemente. «Mi toccavamo ovunque, mi schiaffeggiavano e mi chiedevano: hai incendiato tu il cassonetto? Hai bloccato tu quella via? Confessa e non succederà niente alla tua famiglia. Mi seguivano da settimane, sapevano che facevo parte del movimento. Sono stata liberata su cauzione».
La pressione, i ricatti, le torture — strappano le unghie, fanno elettroshock sul seno e sui testicoli — sono così tante che spesso le guardie riescono a ottenere false confessioni. Melika dice di essere tra le «fortunate» perché non è stata violentata ma «solo» molestata. Gli stupri sono così frequenti che le ragazze in carcere chiedono come prima cosa alle famiglie di portare blister di pillole del giorno dopo. «In cella passavo le giornate a domandarmi quando sarebbe toccato a me» e racconta di non riuscire più a mettere vestiti attillati per paura degli sguardi maschili. Non riesce nemmeno a stare in una stanza con uomini che non conosce.
«Alcune ragazze vengono uccise perché incinte. Gli asportano gli uteri per nascondere le prove e poi fingono che si siano suicidate», spiega Aazam che tra le due è quella che fa più fatica a raccontare. A testa bassa ci dice: «Il mio fidanzato non mi riconosce più». È uno studente universitario, un intellettuale con un enorme desiderio di vivere in un Paese libero dove le donne e gli uomini hanno gli stessi diritti. «Il nostro livello di consapevolezza è così alto che nessuno ci può più ingannare né col Corano, né con le torture», interrompe Melika. Poi continua Aazam: «L’hanno portato via in una retata all’università. Volevano che accusasse un amico di aver ucciso un pasdaran: lui non ha mai ceduto». L’hanno violentato così tanto che sono stati costretti a portarlo in ospedale per ricucire il corpo sventrato. L’hanno riempito di psicofarmaci e fatto l’elettroshock. È uno delle centinaia di condannati a morte del regime. Ora si trova rinchiuso in un ospedale psichiatrico e non sa più come si chiama».
Aazam racconta che quando lei e i suoi genitori sono andati a fargli visita, i medici piangevano per come era stato ridotto. Era l’amore della sua vita, dice, e ha paura che non lo rivedrà mai più: «Ha 24 anni ma ne dimostra 90, è già morto anche se respira».

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