20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Federico Fubini

È evidente che il governo sta lavorando a una propria proposta di revisione del Patto di stabilità. E anche a Berlino e a Parigi si sta ragionando su nuove idee


Già due volte, nell’autunno e a primavera scorsa, il vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis ha provato a proporre un approccio comune per i Paesi dell’Unione: metterli tutti in procedura per deficit eccessivo.E farlo nel pieno dello sforzo per combattere la pandemia, anche se il Patto di stabilità è sospeso. È possibile o persino probabile che Dombrovskis, un ex premier lettone che a Bruxelles ha importanti deleghe sull’euro e un capo di gabinetto tedesco, tra pochi mesi ci riprovi. Ritenti cioè di azionare gli ingranaggi sui conti pubblici, per averli già pronti e attivi quando le regole torneranno in vigore. È probabile anche che il suo tentativo fallisca ancora, ma la lezione in questa vicenda è un’altra: benché pubblicamente se ne parli ancora poco, in Europa rimangono le domande sulla finanza pubblica; ed esiste un mondo, non più egemone ma ancora ben rappresentato in Germania e a Bruxelles, che non vuole cambiare granché nei meccanismi di sorveglianza e anzi è ansioso di riavviarli appena potrà.
Ora, proviamo ad immaginare cosa accadrebbe se questa visione prevalesse. Poiché le regole oggi sospese dicono che il debito deve scendere del 5% l’anno della distanza che lo separa dalle soglie di Maastricht, l’Italia vedrebbe il proprio futuro ipotecato. Con un debito al 160% del prodotto lordo — contro un «limite» del 60% — il governo dovrebbe registrare per un’intera generazione forti attivi di bilancio prima di pagare gli interessi. L’unica soluzione per tentare politiche di sostegno, se servissero in una fase di disoccupazione crescente, sarebbe sospendere le regole. Il sistema diventerebbe credibile solo nei momenti in cui splende il sole, ma non resisterebbe alle prime nubi.
Questa non può essere la strada, all’uscita da una pandemia. Le regole europee vanno riscritte. E non solo perché anche Spagna, Francia e Portogallo dopo Covid si troveranno con un livello di debito pubblico molto cresciuto (benché non alto come in Italia). Su questo tema Mario Draghi ha pronunciato una frase densa di implicazioni l’altro giorno all’Accademia dei Lincei, come Alberto Mingardi ha notato sul Corriere: «A livello europeo dobbiamo ragionare su come permettere a tutti gli Stati membri di emettere debito sicuro per stabilizzare le economie in caso di recessione — ha detto il premier —. La discussione sulla riforma del Patto di stabilità è l’occasione per farlo». Non sono parole messe lì a caso, ma cosa vogliono dire? Cosa dovrebbe accadere perché un Paese fragile possa emettere «debito sicuro» anche quando finisce in crisi? Chiaramente il governo sta lavorando a una propria proposta di revisione del Patto di stabilità ed essa sembra avere già due caposaldi. Il primo è quello al quale allude Draghi: integrare nel sistema europeo l’opzione, nei momenti di recessione, di lanciare programmi di debito comune ad hoc sul modello del Recovery Plan; si è già visto a primavera scorsa che la sola prospettiva di qualcosa del genere rassicura i mercati e permette anche ai governi più deboli di finanziarsi più facilmente. Ma perché questa proposta possa fare strada, l’Italia dovrà prima dimostrarsi impeccabile e implacabile nell’attuare le riforme e i piani di spesa dell’attuale Recovery. Altrimenti ci diranno: ve l’abbiamo già dato, non avete saputo usarlo, perché ne chiedete un altro? Sull’esecuzione ci giochiamo qualcosa di più dei 205 miliardi del piano attuale.
C’è poi almeno un secondo caposaldo nella proposta per l’Europa che sta emergendo da un gruppo di lavoro a Palazzo Chigi, di cui fanno parte (fra gli altri) due giovani economisti come Veronica Guerrieri della Chicago University e Guido Lorenzoni della Northwestern. L’idea è di inserire un criterio di spesa pubblica: nelle fasi positive, questa dovrebbe crescere meno del reddito nazionale (inflazione inclusa), in modo che il deficit scenda in proporzione alle dimensioni dell’economia.
In sostanza Palazzo Chigi sta lavorando a una proposta equilibrata, da far pesare in Europa quando le regole andranno riscritte e riattivate. E non manca molto a quel giorno, tanto che anche a Berlino e a Parigi si sta lavorando a nuove idee. Ieri la Commissione ha fatto sapere che il prodotto lordo in Europa dovrebbe tornare ai livelli di prima della crisi verso la fine dell’inverno 2022. Per alcuni quello dovrebbe essere il segnale che «la festa è finita» (copyright Armin Laschet, candidato della Cdu a succedere a Angela Merkel in autunno) e vanno riattivare regole di bilancio stringenti. Altri in Europa invece sono in linea con la Casa Bianca di Joe Biden e pensano che i governi dovrebbero continuare a sostenere la ripresa in deficit fino a quando non avremo recuperato tutta la crescita che avremmo avuto senza Covid. Non solo quando saremo tornati dove eravamo prima di Covid. Fra questi secondi c’è il ministro dell’Economia italiano Daniele Franco, che lo ha detto al Corriere pochi giorni fa. E anche se suona come un dibattito un po’ astratto, su di esso l’Italia si sta giocando il futuro. Una stretta prematura o eccessiva sarebbe molto pericolosa, visto lo stato dei conti pubblici, dei bilanci di tante imprese e la disoccupazione dilagante. L’Europa tra l’altro esce da questo anno e mezzo spezzata economicamente in due: alcuni Paesi a Nord (Germania in testa) hanno subito recessioni meno gravi e il loro debito pubblico è salito del 10-15% del Pil; altri Paesi a Sud (Italia in testa) ne hanno subite di più gravi e il debito è salito fino al 25% del Pil. Sui due fronti le percezioni della realtà non sono uguali.
Come se ne esce? Dopo le elezioni tedesche, a dicembre, da Bruxelles dovrebbero arrivare i primi «consigli» su come iniziare a programmare la finanza pubblica negli anni seguenti a partire dalla prossima primavera. Saggezza vorrebbe che i piani di rientro del debito fossero realistici — non draconiani — e che si prevedesse un trattamento di favore per gli investimenti pubblici almeno nelle tecnologie e nell’ambiente. E la saggezza in Europa, alla lunga, prevale spesso. Ma è il caso di darle una mano dall’Italia, dimostrando di aver capito cosa ci stiamo per giocare.

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