Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Polito
Il cambiamento perpetuo non è frutto di un’ansia innovatrice ma, al contrario, di una tenace resistenza conservatrice
Agli storici del futuro potrebbe bastare una frase per descrivere il fallimento di una intera classe politica: «Nel 2020 il Parlamento italiano approvò la sesta legge elettorale in meno di trent’anni». I sistemi di voto si cambiano ormai da noi come i vestiti di stagione, il Pd di Renzi ne varò addirittura due nella stessa legislatura, il Parlamento attuale ha già cominciato a sfogliare la margherita tra il modello spagnolo, lo svedese e il greco (dopo aver abbracciato in passato, a fasi alterne, l’inglese, il francese e il tedesco). Intendiamoci: le regole elettorali sono molto importanti perché stabiliscono come trasformare i voti in seggi, definiscono dunque la qualità della democrazia rappresentativa. Ma non sono dogmi, e le grandi svolte della storia ne giustificano pienamente l’adeguamento: come fu nel 1919, esattamente in secolo fa, quando l’Italia passò dall’uninominale al proporzionale per assorbire nel sistema liberale socialisti e cattolici, le forze nuove portate in scena dal Novecento. Oggi però la storia non c’entra niente. Dal Porcellum all’Italicum al Rosatellum, le norme sono state cambiate al solo scopo di favorire nelle successive elezioni i partiti che se le inventavano. Fatte su misura, insomma, e apertamente dichiarate tali (fu il leghista Calderoli, l’autore del Porcellum, a definirlo «una porcata», da cui il nome). Anche se di solito hanno prodotto il paradossale effetto di punire proprio chi aveva provato a truccare le regole a suo vantaggio. Questo cambiamento perpetuo non è dunque frutto di un’ansia innovatrice ma, al contrario, di una tenace resistenza conservatrice.
C’è però una cosa anche peggiore del varare la sesta riforma elettorale di seguito, e sarebbe il non farla pur di tornare a votare mantenendo i 345 posti in più di parlamentari che garantisce l’attuale sistema, e rinviando l’entrata in vigore della riforma costituzionale già approvata in attesa del referendum confermativo. È esattamente ciò che stanno provando a fare tutti quei manovratori che, approfittando della raccolta di firme in Senato, dietro le quinte offrono a parlamentari ormai allo sbando e certi di non essere rieletti una buona ragione per auto-sciogliersi: la speranza di pescare un jackpot in una immediata tornata elettorale con un terzo di seggi in più a disposizione.
Così, quella che era stata presentata come una riforma epocale e di sistema, il taglio del numero dei senatori a 200 e dei deputati a 400, si sta rivelando invece l’ennesimo gioco di palazzo di una classe politica che non solo non guarda al domani, ma cambia idea anche prima che arrivi sera, perché ormai è guidata solo dal proprio istinto di auto-conservazione. Poco interessa il grave pasticcio istituzionale che ne deriverebbe, e il conseguente imbarazzo per la Presidenza della Repubblica, che dovrebbe firmare lo scioglimento. Se infatti un paio di leader in fuga dalle inchieste giudiziarie e un manipolo di parlamentari in fuga da partiti morenti e in cerca di un collegio «octroyé» riuscissero a cambiare tutto perché nulla cambi, ci potremmo trovare davanti all’ipotesi di un nuovo parlamento eletto con regole vecchie e superate, dunque delegittimato in partenza, ma ciò nonostante chiamato ad eleggere il futuro Capo dello Stato. Un capolavoro.
Per molti anni, nella pur disastrata seconda Repubblica, in molti abbiamo pensato che la fragilità e l’instabilità del nostro sistema politico derivassero dalla debolezza delle istituzioni concepite nel dicembre del 1947. La febbre referendaria ne fu un sintomo benigno. Ma con i partiti deboli, o finti, che hanno conquistato la scena si è rivelato impossibile anche cambiare le deboli istituzioni, così che a instabilità si è aggiunta gracilità e imprevedibilità (dopo di che non può stupire se lo spread greco è migliore del nostro, senza alcuna buona ragione economica).
Per quante spiegazioni contingenti ci si possa dare della doppia e clamorosa bocciatura popolare delle «grandi riforme», prima del centrodestra con Berlusconi e poi del centrosinistra con Renzi, è un fatto che gli italiani hanno mostrato di fidarsi più dei costituenti che dei ri-costituenti, più della classe politica che nel fuoco del dopoguerra scrisse la nostra legge fondamentale che dei leader erratici ed egocentrici dell’oggi. E forse non a torto visto che, manco a farlo apposta, sono gli stessi che hanno varato due leggi elettorali dichiarate entrambe parzialmente incostituzionali, il Porcellum e l’Italicum. E i protagonisti nuovissimi, ovviamente sempre più puri di quelli del passato che vogliono epurare, non sembrano migliori, a giudicare dalla campagna acquisti e dai collegi offerti in saldo con cui stanno provando ad addolcire l’eutanasia di un Parlamento.