Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Polito
L’antico vizio di confondere i risultati dei referendum con il consenso politico è difficile da estirpare
La senatrice Barbara Lezzi, per rimarcare la portata della sconfitta dei Cinquestelle alle regionali, ha detto al Corriere: «È un disastro, il 70% che ha votato Sì al referendum non ha votato per noi». Dalla parte opposta Carlo Calenda, leader di Azione, ha scritto che il 30% di No sono altrettanti elettori «in cerca di rappresentanza politica», ovviamente proponendosi per rappresentarli. Quattro anni fa, di fronte alla sconfitta del suo progetto di riforma costituzionale, Matteo Renzi si consolò individuando nel 40% di chi aveva votato Sì una base politica da cui poter ripartire. Non andò così allora, non andrà così adesso. Ma l’antico vizio di confondere i risultati dei referendum con il consenso politico è difficile da estirpare. Colpa anche un po’ nostra, di noi commentatori, che tendiamo spesso a trascurare il merito della domanda posta agli italiani e della risposta da loro espressa, per concentrarci invece sui (presunti) significati politici. Invece è possibile individuare nei comportamenti degli elettori in materia costituzionale una coerenza, un filo rosso, che può tornare utile a chi volesse ricominciare a tessere la tela dell’aggiornamento della Carta. Consiste in questo: dicono di solito No a una Grande Riforma, mito ormai quarantennale della politica italiana, cioè a un radicale rifacimento della nostra democrazia; ma possono dire Sì a una Piccola Riforma, cioè a interventi mirati, comprensibili nella loro semplicità, chirurgici, che cambiano un connotato senza stravolgere il volto.
Si è detto che la riforma di Berlusconi e quella di Renzi furono duramente bocciate nei rispettivi referendum per via dell’«antipatia» politica che al momento del voto riscuotevano i due proponenti. Il referendum del 2006 si svolse poche settimane dopo la sconfitta del centrodestra alle elezioni politiche. Quello del 2016 servì a mettere fine al governo di Renzi. Non c’è dubbio che il clima politico influì. Ma forse ancor di più contò il fatto che entrambi i progetti vennero presentati dagli avversari e considerati dalla maggioranza degli italiani come un salto nel buio. Spaventarono gli elettori. I quali ritennero più saggio fidarsi dei padri costituenti, che dei politici del momento.
Questo atteggiamento è stato interpretato come conservatorismo. Ma forse era più semplicemente una forma di «patriottismo costituzionale»: il rifiuto di giocarsi nell’agone politico quotidiano il patto fondativo della Repubblica, in fin dei conti l’unico patrimonio comune che abbiamo. La Costituzione italiana non sarà «la più bella del mondo», come retoricamente si dice. Ma ha incarnato l’unità nazionale dopo il fascismo, ha accompagnato la ricostruzione, è stata un faro nelle ore più buie della Repubblica. È comprensibile che gli italiani siano cauti nel cambiarla.
Vuol dire che dobbiamo rinunciare a ogni speranza di riforma? Che gli aspetti più evidentemente anacronistici del sistema parlamentare sono perciò immodificabili? Forse no. E il successo dell’ultimo referendum lascia aperta una porta: se si procede un passo alla volta ci sono possibilità di convincere l’elettorato.
È vero che questa volta il quesito era semplice e accattivante: tagliare il numero dei parlamentari è una misura popolare anche perché è sostenuta praticamente da tutti i partiti da trent’anni a questa parte, seppure in salse diverse. Concludere che il 70% degli italiani che ha votato Sì vada iscritto all’antipolitica, come pure è stato detto, è dunque davvero ingenuo (se così fosse la Camera, che approvò la riforma quasi all’unanimità, sarebbe più «antipolitica» dei suoi elettori, che almeno al 30% si sono opposti).
Quella maggioranza di Sì, invece, si potrebbe forse replicare su altri punti altrettanto potenzialmente «popolari», se ben argomentati. D’altra parte la stessa Costituzione, fissando all’articolo 138 le regole per cambiarla, sembra indicare una via di riforma per punti, dunque prudente. A meno di non dar vita a una nuova Assemblea Costituente, che a quel punto avrebbe la legittimità per rifare una Carta del tutto nuova, il Parlamento deve perciò imparare a seguire una strada di piccoli passi parziali, che si possano però iscrivere in un unico disegno riformatore.
Il futuro Parlamento di soli 600 membri si presta per esempio benissimo a modifiche efficaci del bicameralismo ripetitivo. Si potrebbe semplificare il processo legislativo prevedendo una serie di materie in cui si delibera a Camere riunite. Si potrebbe sfruttare il cambiamento dei regolamenti parlamentari, che per forza di cose dovrà seguire al taglio, per sperimentare tra i partiti forme di intesa su riforme future.
È infatti molto difficile che, con soli tre anni a disposizione e con la frammentazione politica attuale, questo Parlamento possa rimettere di nuovo mano alla Carta. Ma può funzionare come una palestra per il prossimo. Del taglio dei parlamentari si cominciò a parlare nella legislatura precedente. E per giungere in porto si è dovuto estirparlo da un progetto di Grande Riforma dei Cinquestelle quello sì con tratti eversivi della democrazia parlamentare, come la possibilità di sottoporre a referendum confermativo quasi ogni legge, paralizzando così la funzione legislativa; oppure come il vincolo di mandato, per cui i parlamentari non rappresentano più gli elettori ma diventano impiegati del partito che li ha candidati, e non sono dunque autorizzati al dissenso. Bisogna insomma che i partiti credano al voto degli elettori, che lo prendano sul serio. Più se lo giocheranno invece nella gara del consenso di parte, più renderanno sospettosi gli italiani, allontanandoli dal riformismo costituzionale.