24 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Franco Venturini

L’embargo totale sulle forniture di greggio alla Corea del Nord proposto dagli Usa non è passato. Potranno bastare le misure decise a fermare il dittatore?

Quando i Paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu hanno cominciato a discutere quali sanzioni dovessero punire la Corea del Nord per il potentissimo e illegittimo test nucleare del 3 settembre scorso, tutti sapevano che lo spartiacque tra svolta dura e severità di circostanza avrebbe avuto l’odore acre del petrolio.

L’embargo totale sulle forniture di greggio a Pyongyang proposto dall’America e appoggiato dai suoi alleati (compresa l’Italia che quest’anno siede nel Consiglio) avrebbe tecnicamente impedito a Kim Jong-un di continuare a sviluppare, con ritmi sempre più accelerati, i suoi programmi nucleari e missilistici. Non era forse questo, il tema cruciale portato all’attenzione del Palazzo di Vetro? Non si trattava forse di fermare una corsa già partita verso la guerra tra Usa e Corea del Nord, una guerra che potrebbe avere prezzi altissimi e innescare un nuovo disordine nucleare prima asiatico e poi mondiale? E ancora, la comunità internazionale non era forse al cospetto di una occasione unica e suprema per una intesa tra Occidente, Cina e Russia, tutti interessati al mantenimento della pace?

L’occasione c’è stata, ed è andata sprecata ancora una volta. Certo, le sanzioni decise dall’Onu sono le più severe sin qui varate contro Pyongyang, colpiscono interessi importanti del regime nord-coreano. Pur escludendo il blocco dei beni di Kim Jong-un, queste sanzioni autorizzano le perquisizioni navali ma senza uso della forza, fermano la fruttuosa esportazione dei tessili, bloccano l’import di gas liquefatto, stabiliscono complessi meccanismi per frenare in qualche modo anche quello petrolifero. Uno sforzo collettivo è stato fatto, è giusto riconoscerlo. Ma non sono, queste sanzioni, il colpo di maglio decisivo che soltanto un embargo petrolifero totale e condiviso poteva produrre. E non sono, non ancora, il frutto di una nuova comune consapevolezza nella comunità internazionale: come sempre gli americani hanno tentato di alzare la voce, come sempre cinesi e russi, pur ampliando le loro convergenze con l’Occidente, hanno ottenuto una riscrittura meno severa del testo della risoluzione.

Protagonista assoluta del tradizionale braccio di ferro in Consiglio di sicurezza è stata questa volta la Cina. Pechino non voleva rompere con gli Usa, e dunque doveva concedere a Trump un pacchetto di accordi sufficientemente sostanzioso. Ma la vera priorità di Xi Jinping era di non colpire troppo duramente la Corea del Nord, e di affondare perciò la proposta di embargo petrolifero totale. Per una serie di motivi. Pechino pensa che una guerra sia ancora evitabile, e propone, in coordinamento con Mosca, la formula della «doppia sospensione»: Pyongyang ferma i lanci di missili e gli esperimenti nucleari, Washington e Seul fermano le manovre militari in Corea del Sud e nei mari adiacenti. Il netto rifiuto opposto dagli Usa non sembra aver scoraggiato i cinesi, ma non è tutto. La Cina teme che il regime nord-coreano crolli all’improvviso innescando una grande ondata migratoria verso il proprio territorio. E in termini geopolitici, se non può ottenere una Corea riunificata, denuclearizzata e neutrale, preferisce fare i conti con Kim Jong-un piuttosto che assistere a una «liberazione» di Pyongyang di ispirazione americana. Per tutti questi motivi, ai quali si aggiungono secondarie considerazioni di contabilità commerciale, la Cina ha fatto a New York qualche passo verso gli Usa ma soltanto a condizione di poter mantenere i propri limiti invalicabili. Con l’appoggio della Russia, e confortata dalla previsione di Putin secondo cui le sanzioni sono superflue, perché i nord-coreani se necessario «mangeranno erba» pur di ottenere lo status di potenza nucleare riconosciuta.

Così, l’Onu ha finito per fornire quel che fornisce di solito: un compromesso. Ma può bastare un compromesso in una questione di pace o guerra? Le limitate ambizioni delle misure poste in rampa di lancio non finiranno per incoraggiare proprio colui che si voleva punire?

Sarà Kim Jong-un a dare le prime risposte a questo interrogativo cruciale per il mondo intero. E saremmo sorpresi se il tiranno di Pyongyang abbandonasse proprio ora la sua strategia della provocazione, se non ordinasse nuovi lanci di missili, se non esibisse nuove testate atomiche affermando di poterle lanciare sugli Stati Uniti, se non continuasse a programmare esperimenti nucleari sotterranei.

Trump, nella trincea opposta, non esce trionfante dal confronto del Palazzo di Vetro. Ha ottenuto parecchio, ma il punto centrale e decisivo della sua proposta è stato silurato dai cinesi. Cosa farà ora il presidente degli Stati Uniti, oppure cosa farà al prossimo lancio nord-coreano? Dopo il test nucleare del 3 settembre il capo della Casa Bianca aveva avvertito che «quando è troppo è troppo», prima ancora aveva definito inutile una trattativa con Pyongyang. Lo spazio e il tempo per evitare un’azione militare si sono ristretti. Forse troppo.

E la Cina? Sulla carta può sembrare lei la vincitrice della partita dell’Onu, ma Xi Jinping sbaglierebbe di grosso a non mettere urgentemente in cantiere una più coraggiosa politica nord-coreana. Che Trump la prenda o meno in contropiede sparando il primo colpo, Pechino ha poco tempo per arrendersi all’evidenza: i progetti di Kim Jong-un, nel loro attuale stadio di avanzamento, sono diventati una minaccia strategica imminente anche per la Cina. Il primo negoziato che si impone è ora quello tra Pechino e Washington, se Xi vuole, e avrà il tempo, di evitare la guerra. Ma se Pechino continuerà invece a viaggiare in ritardo come ha fatto all’Onu, e non capirà che il tempo dei compromessi al ribasso è tramontato, allora la voglia di pace, che è anche la nostra, diventerà una illusione.

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