22 Novembre 2024

Fonte: corriere della Sera

di Massimo Franco

La Commissione Ue ha detto e dato all’Italia quello che poteva. Le responsabilità a questo punto ricadono sul nostro Paese: non ci sono più alibi. Si tratta di dimostrare di avere progetti di riforme chiari e pronti; e di saperli mettere in pratica in modo rapido ed efficace


In teoria la posizione di Giuseppe Conte è invidiabile. Il premier siede su duecento miliardi di euro, ancora virtuali ma da distribuire nel 2021. E viene accarezzato da sondaggi che lo innalzano a picchi imprevisti di popolarità. Eppure, la settimana appena iniziata potrebbe trasformare questi due vantaggi in altrettanti limiti. Al momento, non è chiaro che cosa Palazzo Chigi potrà e vorrà fare con gli aiuti europei. Le rivendicazioni parallele del Parlamento, dei ministeri, di chi propone commissioni ad hoc, degli enti locali, mostrano una moltiplicazione degli attori che alla fine stordisce: sa di surrogato delle consultazioni grilline sulla «piattaforma Rousseau».
Più che una prova di democrazia allargata, si trasmette un senso di confusione che può diventare l’ennesimo alibi per non scegliere di fronte agli appetiti sulla gestione di questi fondi. Oltre tutto, il presidente del Consiglio si trova a zigzagare in un labirinto parlamentare di maggioranze diverse: sul prolungamento dell’emergenza fino al 31 ottobre; sull’approvazione di uno scostamento di bilancio di circa 25 miliardi di euro; sull’utilizzo del Mes, il prestito europeo di 37 miliardi per la sanità; e su una riforma elettorale che divide anche la sua maggioranza. È difficile prevedere come il governo riuscirà a navigare in questo ingorgo. L’ipotesi che sopravviva è la più verosimile, anzi appare quasi scontata.
Il problema è come, e con quale segnale all’Europa. Per ognuno dei temi che saranno affrontati nei prossimi giorni, la coalizione tra M5S, Pd e Iv tende a disunirsi; e quasi di rimbalzo si disarticola anche l’opposizione.
Un tempo si sarebbe parlato di maggioranze variabili. Ma viene da pensare più a convergenze casuali, mercuriali, figlie di calcoli che al massimo si proiettano a settembre: mese indicato come spartiacque probabile del governo, quando si celebreranno alcune elezioni regionali e il referendum sul taglio dei parlamentari; e, aspetto da non sottovalutare, riapriranno le scuole. Un tatticismo esasperato in una fase di emergenza economica dai contorni strutturali sarebbe un azzardo.
Dovrebbe suggerire scelte nette, non un galleggiamento privo di approdi chiari. D’altronde, ormai la Commissione Ue ha detto e dato all’Italia quello che poteva. Le responsabilità a questo punto ricadono sul nostro Paese: non ci sono più alibi. Si tratta di dimostrare di avere progetti di riforme chiari e pronti; e di saperli mettere in pratica in modo rapido ed efficace. Il rischio che tutti temono ma non sembrano in grado di sventare è quello di un’ennesima politica del rinvio. L’enormità dei problemi e la cultura politica diversa del M5S e del Pd giustificano, in parte, la difficoltà. Basta citare il tabù del Mes, ostracizzato dai grillini e, di riflesso, da Conte, e chiesto invece da Pd, Iv e, all’opposizione, da Forza Italia.
Pesa altrettanto la sindrome dell’accerchiamento che Conte comincia ad avvertire, sebbene finora sia stato abile a trarne vantaggio. La sfida si gioca sulla capacità di esercitare un equilibrio tra il controllo politico degli aiuti e la delega per la loro utilizzazione a chi ha le migliori competenze tecniche. L’idea che sta affiorando è di coordinare il lavoro di Palazzo Chigi con tutti i ministeri, e di coinvolgere Regioni, Comuni e Province. Che cosa voglia dire in concreto, tuttavia, non è chiaro: salvo il fatto che prenderà molto tempo, e che le richieste degli enti locali rischiano di replicare il dualismo col governo centrale già emerso durante la fase acuta dell’emergenza del coronavirus.
È un tema potenzialmente esplosivo perché negli ultimi giorni incrocia il malessere crescente dei centri di accoglienza dai quali fuggono troppo facilmente decine di migranti in quarantena. Nell’agenda di Conte, la questione non c’è; ma sta diventando cruciale. L’aveva sollevata qualche settimana fa il segretario del Pd, Nicola Zingaretti. Ieri l’ha rilanciata il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, grillino. Il suo attacco allarmato sembra un monito al Viminale e allo stesso Conte; e un invito indiretto a non perdere di vista i problemi concreti sui quali si gioca la credibilità del governo.
Maliziosamente,si può pensare anche all’ennesima stilettata dell’ex leader del M5S a un premier che gli toglie visibilità e potere. È possibile: sebbene incomba la Lega di Matteo Salvini che sull’immigrazione ha costruito le sue fortune elettorali, e potrebbe accumularne ancora. Ma l’uscita di Di Maio finisce per essere qualcosa di più. Serve a ricordare a Palazzo Chigi che la realtà corre più forte di qualunque manovra dilatoria: o la intercetta, la analizza e la guida, o ne sarà travolto. Oggi più che mai la tenuta sociale e la ripresa economica dell’Italia dipendono da quanto dimostrerà di saper fare un governo al quale è vietato il narcisismo della popolarità.

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