21 Novembre 2024

La caduta delle élite e gli errori che hanno favorito la rielezione del tycoon

L’America ci rifà un 2016. Nuova débacle dell’establishment, sconfitta delle élite, sconfessione dei guru. Lo shock di otto anni fa non è bastato, la lezione non è stata appresa. Il mondo reale non è altrettanto depresso o sgomento, forse lo interpretano più cinicamente i mercati: indice Dow Jones alle stelle, forte rialzo del dollaro. Donald Trump deve tanta gratitudine al partito democratico. Con un calcolo machiavellico che credevano geniale, i notabili del partito (Joe Biden in testa) fecero di tutto per aiutarlo a riconquistare la nomination del Grand Old Party. Convinti che fosse l’avversario più debole, che avrebbero sconfitto facilmente, gli hanno scatenato addosso una ridda di inchieste giudiziarie spesso pretestuose e inconsistenti. Così ha potuto atteggiarsi a perseguitato politico. Lo hanno demonizzato dandogli del fascista, insultando mezza America che lo sosteneva, e così convincendola che solo lui tiene testa alle élite. In una fase di malcontento sullo stato della nazione, la vittoria elettorale dell’opposizione era prevedibile: è il vento che tira a livello mondiale, chi governa ha perso voti in Inghilterra, Francia, India. Ma che a guidare l’opposizione fosse di nuovo Trump non era scontato, oggi al posto suo potrebbe esserci la prima donna presidente degli Stati Uniti, la repubblicana Nikki Haley, se i democratici non avessero fatto di tutto per resuscitare il vecchio Donald.
A questi errori si è aggiunta la nomination oligarchica di Kamala Harris. Pessima candidata che si era sgonfiata subito nelle primarie del 2020, Harris non ha mai avuto un’investitura dalla base del suo partito, non è mai passata attraverso un processo di selezione democratica, non ha mai dovuto confrontare idee e programma con dei rivali interni. È stata premiata, in una logica omertosa, per aver partecipato alla congiura del silenzio sulla salute di Biden. È stata catapultata in campagna elettorale dalla Casa Bianca e dai notabili del suo partito (alcuni dei quali titubanti fino all’ultimo, vedi l’endorsement tardivo di Barack Obama). Ha dovuto riconoscere di fatto — senza mai dirlo — che Trump aveva ragione su punti qualificanti. Harris versione 2020 era per le frontiere spalancate a chiunque volesse entrare in America; Harris versione 2024 dava ragione a Trump sulla necessità di controllare i flussi migratori con rigore. Idem su: dazi contro la Cina, politica energetica, ordine pubblico e lotta alla criminalità.
Tanti ripensamenti calati dall’alto, senza mai riconoscerli in modo aperto, senza mai condannare gli errori commessi in passato: nella speranza di acchiappare voti moderati conservando i consensi dell’estrema sinistra e dell’élite radicale che domina nei media, nell’accademia, a Hollywood. Quando infine a pochi giorni dal traguardo il clan Harris ha sentito odore di sconfitta, è partito il ricatto: o votate per me o siete dei nazifascisti. Obama ci ha messo del suo, bacchettando i maschi black: se non votate per lei siete sessisti, maschilisti, patriarcali. Risultato, in uno Stato-chiave del Sud come la Georgia Trump ha raddoppiato i suoi consensi tra i maschi black. Gli stessi uomini afroamericani che in molte circostanze avevano eletto delle donne sindaco nelle loro città, delle donne governatrici nei loro Stati, si sono ribellati al diktat insopportabile, «o voti come dico io oppure sei moralmente abietto».
Altri errori vanno evitati nel Day After. Non teorizziamo che la democrazia americana è malata. Non può essere sana solo a condizione che vincano «i nostri». Non rifugiamoci nel complottismo tante volte denunciato quando lo pratica la destra. No, non è colpa di Elon Musk che ha sostenuto Trump o di Jeff Bezos che ha negato a Harris l’endorsement del suo giornale (Washington Post). Gli stessi Musk e Bezos avevano sostenuto i democratici fino al ciclo elettorale precedente, senza che nessuno si scandalizzasse. Né ha fatto scalpore che la maggioranza degli altri miliardari (Bill Gates, Mark Zuckerberg, Michael Bloomberg, George Soros) abbia continuato a sostenere il partito democratico. Harris ha incassato e ha speso molti più soldi di Trump in questa campagna. C’è da augurarsi che nelle redazioni di giornali e tv non ricominci la «guerra partigiana», la «mobilitazione antifascista» che ha portato la sinistra ad autoglorificarsi senza conquistare un voto in più. Insultare e offendere è un vizio in cui eccelle Trump ma non ne ha il monopolio. Tanta élite progressista trasuda disprezzo classista verso gli elettori di destra contribuendo a gettarli nelle braccia del 47esimo presidente.
In quanto a Trump, un rischio è che sopravvaluti la propria vittoria. È netta, però non è uno di quegli sconvolgimenti «a valanga» che l’America conobbe in passato. Nulla di simile allo stravolgimento delle mappe elettorali verso sinistra con Franklin Roosevelt o verso destra con Ronald Reagan. Gli elettori americani sono rimasti divisi a metà anche se la metà repubblicana è passata in vantaggio. Trump non ha ricevuto il mandato per una rivoluzione. Al contrario molti dei suoi elettori si aspettano un ritorno alla normalità, dopo gli eccessi di una sinistra troppo radicale. Dall’ordine pubblico al controllo delle frontiere, dal patriottismo all’importanza della famiglia, la metà della nazione che lo ha votato auspica cose che fino a Bill Clinton erano valori condivisi a sinistra. Se Trump eccede nell’interpretazione del suo mandato, le legislative di mid-term sono dietro l’angolo. I presidenti degli Stati Uniti sulla carta governano per quattro anni, nella realtà spesso si sono visti dimezzare i poteri dopo un biennio.

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