Occorre agire presto, ha detto il G20 straordinario voluto da Draghi. Qualche segnale di speranza c’è, come i contatti Usa-Europa-talebani in Qatar. Ma serve molto di più
Ricordate l’Afghanistan, la disastrosa sconfitta occidentale di ferragosto, la rinnovata arroganza dei talebani vincitori, le terribili immagini di chi cercava di scappare, i diritti delle donne e delle minoranze nuovamente calpestati? Diciamolo: le guerre perse di solito vengono infilate sotto il tappeto il più presto possibile, e così è stato anche per Kabul e dintorni. Hanno prevalso le troppe convulse urgenze interne nei singoli Paesi, e soprattutto una comunità internazionale percorsa da fratture profonde, incapace di agire in modo coordinato, avvilita da leadership decadenti e da altre sin troppo invasive. Ma proprio per questo il G20 straordinario sull’Afghanistan convocato ieri dalla presidenza italiana è stato un successo, malgrado le apparenze e le assenze. Perché in un mondo ormai distratto, preoccupato semmai soltanto dalle ondate migratorie che possono venire da Kabul, Mario Draghi ha costretto a ricordare, si è battuto per non abbassare il sipario su una tragedia che coinvolge milioni di afghani e rischia di destabilizzare l’Asia Centrale, e alla fine, malgrado un vertice breve e virtuale, è riuscito a tenere l’Afghanistan sull’agenda delle priorità.
Era questo l’unico obiettivo realistico della riunione in videoconferenza, anche se inizialmente ne era stato annunciato uno ancora più ambizioso: coinvolgere la Russia e la Cina in una azione globale. Per evitare che il dopoguerra afghano riproponesse le crudeltà del precedente potere dei talebani, per difendere i diritti delle donne e delle bambine, per fare in modo che l’Afghanistan non tornasse ad essere, come alla vigilia dell’attacco alle Torri di New York, il santuario del terrorismo internazionale. Putin e Xi Jinping non hanno voluto capire, hanno sbagliato a non esserci e a delegare propri ministri. Si sa che loro (soprattutto Pechino) predicano la non-interferenza in Afghanistan e suggeriscono la restituzione a Kabul delle riserve finanziarie detenute nelle banche Usa e in Gran Bretagna. Mentre gli occidentali sono invece decisi a non riconoscere troppo presto il governo talebano, a porre condizioni, a usare quelle ricchezze come leva diplomatica. Ma una volta appurato il dissenso, restavano le convergenze: contro il terrorismo già praticato dall’Isis, contro il fondamentalismo islamico che potrebbe contagiare gli uiguri in Cina e i musulmani nell’ex impero sovietico, a favore di una azione umanitaria da esibire al mondo. Invece Putin e Xi Jinping hanno perso l’occasione, e hanno preferito entrambi il dialogo diretto con gli Usa già in atto o programmato (tra Biden e Xi Jinping in forma virtuale ma entro l’anno).
Peccato. Ma quale esempio di unità d’azione poteva dare di questi tempi la comunità internazionale? La Casa Bianca è concentrata nello sforzo di frenare l’espansionismo cinese e ne discute poco o punto con gli alleati europei, l’Europa è immersa in una stagione che la scuote e che va dall’incognita tedesca alla sfida polacca, le crisi regionali (compresa la Libia sulla quale Italia, Francia e Germania patrocineranno una temeraria conferenza il mese prossimo) non sono avviate a soluzione, la ripresa dei negoziati nucleari con l’Iran è ancora da venire, il nord-coreano Kim Jong-un cerca inutilmente di attirare l’attenzione di Biden lanciando raffiche di missili, Taiwan è pronta a difendersi da un attacco cinese, la Siria resta semidistrutta e piena come l’Afghanistan di aspiranti migranti, il turco Erdogan ricorda che è lui a detenere la chiave del cancello che apre la via dell’Europa e che non potrà, o non intende, fare di più. Se ci guardiamo intorno, lo spettacolo è desolante. La credibilità dell’Occidente e dei suoi leader non è mai stata così bassa, anche se Putin e Xi Jinping si sono sparati sui piedi mancando un treno che avrebbero avuto interesse a prendere.
Perché loro, al pari degli occidentali, sanno bene che Kabul non potrà aspettare ancora molto. Ieri l’Europa ha dato il buon esempio mettendo in campo un miliardo di euro per aiutare la popolazione afghana. Ma l’Onu avverte che due milioni di bambini soffrono di malnutrizione e rischiano la vita, che altri milioni di adulti provano con scarso successo ad affrontare l’insicurezza alimentare, che mancano strutture sanitarie e soprattutto medicine, che le banche sono chiuse e gli stipendi non vengono pagati se non a pochi privilegiati, che le donne e le bambine sono emarginate da tutto salvo pochissime eccezioni locali, che molte migliaia di cittadini «liberati» cercano con ogni mezzo, ma di solito a piedi, di trovare rifugio in Pakistan, in Tajikistan, in Iran. La catastrofe è a un passo, umanitaria sì, ma la prima conseguenza sarebbe la crescita del terrorismo, l’aumento della repressione sociale, l’aumento della produzione di oppio come ultima e unica risorsa finanziaria.
Occorre agire presto, ha detto il G20 straordinario voluto da Draghi. Qualche segnale di speranza c’è, come i contatti triangolari Usa-Europa-talebani in Qatar. Ma serve molto di più, e senza rinunciare, con buona pace di cinesi e russi, a precise condizioni sulla creazione di un governo inclusivo, sul trattamento delle donne e delle minoranze etniche, e sul verificato ripudio del terrorismo. Soltanto allora si potrà, forse, sbloccare quei fondi «nazionali» che i talebani reclamano. Stando bene attenti a non farli gestire soltanto dagli avidi ex studenti coranici.
Il promemoria c’è stato, ora la presidenza italiana dovrà badare a che l’Afghanistan non venga infilato nuovamente sotto il tappeto. A cominciare dal G20 ordinario di fine mese.