19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Antonio Macaluso

Non occorre essere politologi o raffinati analisti per capire che non c’è colla al mondo che possa tenere insieme blocchi sociali tanto diversi


Sosteneva Indro Montanelli, con la consueta robusta dose di cinismo, che tra gli italiani la solidarietà non esiste, esiste la complicità. Ora, immaginando per un momento di essere al cinema a riguardare il film dei primi sei mesi del governo guidato da Giuseppe Conte, quanta solidarietà si riesce a cogliere tra M5S e Lega? Quanta complicità? E invece, quanta insofferenza, se non vera e propria incomunicabilità? Il giochetto è perfino troppo facile se si è intellettualmente onesti. E neanche occorre essere politologi o raffinati analisti per capire che non c’è colla al mondo che possa tenere insieme blocchi sociali tanto diversi. Se poi qualcuno pensava che bastasse un sovranismo confuso ad amalgamare l’antieuropeismo diffuso nella pancia dei due elettorati, ha dovuto ricredersi e perfino sorprendersi. Le crepe si sono moltiplicate più velocemente di quanto anche gli osservatori più scettici e avveduti si attendessero, al netto di contratti firmati, proclami urlati imprudentemente dai balconi istituzionali, muscoli esibiti a chi non ha bisogno di mostrare i propri per dimostrare chi è il più forte.
Acclarato pacificamente tutto questo, c’è poco da stupirsi se un bel giorno Giancarlo Giorgetti, sottosegretario alla presidenza, nonché vero e unico alter ego di Matteo Salvini, se ne esce – parafrasando il tormentone degli anni 90 che pubblicizzava la Y10, come l’automobile che piace alla gente che piace – con un candido «il reddito di cittadinanza piace a un’Italia che non ci piace». E c’è poco da stupirsi se il presidente della Camera grillino, Roberto Fico, ribadisce che «la Tav non serve» e che «se un sondaggio mi dice che l’accoglienza dei migranti non tira più io me ne frego, io come politica voglio dimostrare che l’accoglienza rende il paese più sicuro, migliore fermo restando che ci sono certi fenomeni che vanno gestiti e governati». Potremmo continuare a citare rasoiate, battute e acide carezze, ma il punto è ormai la visione prospettica di un’alleanza giocata su un contratto vissuto come un legaccio e su un quotidiano dove il sospetto prevale sulla collaborazione. Mai si era, a tal proposito, visto un sottosegretario alla presidenza essere così mal tollerato come Giorgetti, temuto e trattato dalla corte pentastellata come un corpo estraneo, uno dal quale guardarsi e al quale badare bene se far sapere o meno certe cose. Tanto inviso da aver tentato in ogni modo, già prima della nascita dell’Esecutivo, di dirottarlo nel pur più importante incarico di ministro dell’Economia.
Ora, alla luce di tutto questo, c’è qualcuno che – senza timore di sembrare uno sprovveduto – può dire di credere alla narrazione di un governo che durerà cinque anni? Basti solo pensare al fardello di promesse non mantenute o mantenute solo in parte, a un’economia che non gira come dovrebbe per garantire il livello di Pil sul quale si incentra l’intera manovra di bilancio 2019, a Luigi Di Maio alle prese con la sempre più impaziente ala movimentista del Movimento, a Matteo Salvini che prima o poi dovrà ascoltare quanti sul territorio – a cominciare dai Governatori – gli riportano l’insoddisfazione di una base che ha votato Lega non solo per avere maggiore sicurezza e meno immigrazione clandestina, ma anche più opere pubbliche, più attenzione all’impresa e meno tasse. Aggiungere che i numeri della maggioranza al Senato si sono pericolosamente assottigliati – siamo ad appena 4 – dopo le espulsioni di dissidenti grillini. Ora, poiché non si può fare come suggerito da Corrado Guzzanti – «se i partiti non rappresentano più gli elettori, cambiamoli questi benedetti elettori» – i due azionisti del governo avranno bisogno nei prossimi mesi di ritrovare il massimo di aderenza ai loro sostenitori, anche perché sono in avvicinamento le elezioni europee e i sondaggi confermano che gli italiani non hanno alcuna intenzione di fare a pezzi l’Europa. Criticare, lamentarsi, inveire, va bene. Ma per affidarsi a chi promette di ribaltare tutto, qualsiasi persona di buon senso – per quanto delusa o scettica – vuole capire di cosa si tratta, cosa si offre, cosa viene dopo. Gli italiani ne hanno viste molte ma alla fine di rivoluzioni non ne hanno mai fatte. E se qualcuno ha pensato o cercato di spacciare come tale quella affidata all’Esecutivo Conte, ha sbagliato. Perché se reddito di cittadinanza e «quota cento» sono strumenti di lotta rivoluzionaria, bisognerà trovare una collocazione storica diversa a gente come Lenin, Che Guevara e – con qualche azzardo – perfino Donald Trump.

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