Fonte: Corriere della Sera
di Giovanni Belardelli
La marginalizzazione del Parlamento è anche la conseguenza di processi in atto da molto tempo
Da varie parti è stata criticata in questi ultimi giorni non tanto la riduzione dei membri delle Camere in sé, ma il modo in cui essa viene realizzata dalla riforma sottoposta a referendum il 20 settembre: con un semplice taglio lineare destinato ad avere importanti effetti negativi, a cominciare dalla ridotta rappresentanza di interi territori e dal minor peso dei parlamentari (in rapporto ai consiglieri regionali) nell’elezione del capo dello Stato. Mi pare tuttavia che molte delle critiche, in gran parte condivisibili, tendano a considerare certi aspetti negativi della riforma quasi alla stregua di conseguenze indesiderate, alle quali ci si sia dimenticati di trovare in tempo una soluzione intervenendo sulla legge elettorale, sui regolamenti parlamentari o su altro ancora (il recente appello di 183 costituzionalisti per il No derubrica esplicitamente i motivi del proprio dissenso a «ragioni tecniche»). Si sottovaluta in tal modo come il taglio lineare del numero di deputati e senatori sia il frutto della visione coerentemente antiparlamentare presente fin dalla nascita nel M5S, un movimento che si proclamava fautore della democrazia diretta contro la democrazia rappresentativa, concepita questa seconda come una forma politica vuota e ingannevole. È fin troppo noto che questo sosteneva Jean-Jacques Rousseau, non a caso scelto per dare il nome a una piattaforma informatica che avrebbe dovuto consentire agli iscritti al movimento — e in prospettiva a ogni cittadino — di pronunciarsi direttamente su tutto. È assai probabile che ben pochi esponenti del M5S abbiano letto il Contratto sociale, ma del resto ben pochi iscritti ai partiti di sinistra tra Otto e Novecento avevano letto il Capitale di Marx.
Da questo punto di vista la famosa affermazione di Beppe Grillo, che proclamava l’intenzione di aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, andrebbe considerata, più che la boutade di un comico, la delineazione di un obiettivo poi in buona parte raggiunto. La successione di un governo giallo-rosso a uno giallo-verde, con il medesimo presidente del Consiglio, non è forse la conseguenza del caos provocato nel Parlamento italiano dal successo elettorale dei Cinquestelle? Del resto, se considerate nell’insieme, molte iniziative riconducibili direttamente o indirettamente al movimento fondato da Grillo confermano una visione antiparlamentare piuttosto coerente. Si pensi, per quanto possa apparire velleitaria, all’idea di introdurre il vincolo di mandato, oppure al referendum propositivo (approvato nel febbraio dell’anno scorso dalla Camera) che, secondo il giudizio di molti, contiene il rischio di contrapporre una proposta di iniziativa popolare a una legge approvata dal Parlamento (ma anche qui: era un effetto indesiderato oppure un obiettivo perseguito?). Lo stesso uso eccessivo dei dpcm da parte del presidente del Consiglio Conte o la proroga dello stato di emergenza potrebbero ben inserirsi in questa linea di marginalizzazione del Parlamento.
Naturalmente, questa marginalizzazione è anche la conseguenza di processi in atto da molto tempo, legati ad esempio all’eccessivo ricorso ai decreti legge o all’approvazione da parte delle Camere di leggi delega dal contenuto indeterminato. Come pure è la conseguenza di quel sentimento antipolitico che ha portato molti italiani a ritenere i parlamentari null’altro che dei parassiti che percepiscono uno stipendio per non fare nulla. Ma solo nei Cinquestelle questa avversione viscerale per la cosiddetta «casta» è stata al centro di una linea, e anzi di una identità, politica.
Certo, queste posizioni si stanno sgretolando da tempo, come era inevitabile per un movimento antisistema divenuto perno centrale del governo (anzi, di due governi di opposto colore politico). E il recente voto sulla piattaforma Rousseau, che ha aperto alle alleanze con il Pd e al terzo mandato per gli eletti, non ha fatto che sancire un processo in atto da tempo. Ma proprio per questo rimane soltanto la eventuale vittoria dei No al referendum a puntellare un’identità antiparlamentare del M5S che si è da tempo appannata. Una vittoria dei No, ma forse anche una vittoria non plebiscitaria dei Sì, avrebbe un altro rilevante effetto: spingerebbe milioni di italiani ad abbandonare l’illusione di poter affrontare i mali della politica con le scorciatoie antipolitiche. Questa illusione il nostro Paese l’ha nutrita per un quarto di secolo e oggi si trova non a caso con un ceto politico (di destra come di sinistra) non migliore, probabilmente anzi peggiore, di quello che ha governato l’Italia ai tempi della cosiddetta Prima Repubblica.