22 Novembre 2024
EDITORIALE
di Michele Anis
Fonte: Corriere della Sera
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Un grosso paio di forbici volteggia sulle nostre chiome. Le impugna il presidente del Consiglio, che ne ha fatto ancora uso lo scorso venerdì. Tagli alle prefetture (da 106 a 40). Tagli alle camere di commercio (ne sopravvivranno una ventina).

Tagli alle sezioni distaccate dei Tar (amputazione totale). E poi sforbiciate sui permessi sindacali. Sulle propine degli avvocati dello Stato. Sui gettoni dei segretari comunali. Sui doppi incarichi dei magistrati. Sulle 5 scuole della pubblica amministrazione. Sui ruoli dirigenziali. Su ogni ufficio locale, centrale, interstellare. Risultato: ci era cresciuta sulla testa una zazzera leonina, rischiamo di finire pelati come un uovo.
Però l’Italia aveva bisogno d’un barbiere. Non solo perché troppi capelli non riesci a pettinarli, e infatti il nostro Stato è fin troppo arruffato. Anche perché sotto ogni ricciolo può ben nascondersi la pulce della corruzione. Quella che negli ultimi vent’anni ci ha fatto precipitare dal 33º al 69º posto nella classifica di Transparency International anche in virtù di scandali come quelli del Mose e dell’Expo. Non a caso la seconda lama della forbice s’infila proprio lì, rafforzando i poteri di Cantone sugli appalti. Quali? Soprattutto uno: l’Autorità nazionale anticorruzione potrà sospendere rami d’attività delle aziende, commissariarli, avviarne una contabilità separata.

Funzionerà? Lo sapremo presto. Anche se è lecito nutrire qualche dubbio – in termini economici, prima ancora che giuridici – sulla possibilità che un’impresa riesca a camminare con un piede o una caviglia congelati. Anche se bisogna sempre soppesare i costi sociali di ogni misura repressiva, a partire dall’occupazione: ricordiamoci dell’Ilva. Anche se l’eccesso di controlli può risultare altrettanto pernicioso rispetto al vuoto di controlli, contraddicendo le istanze di semplificazione che sorreggono quest’ultima manovra del governo Renzi.
Ma un intervento era comunque necessario. Magari per renderlo ancora più efficace servirebbe allungare i tempi della prescrizione, che mandano in fumo 130 mila processi l’anno. E ripristinare il falso in bilancio, depenalizzato nel 2002 dal governo Berlusconi. Però nessuna norma, nessuna authority , nessun gendarme ci potrà salvare l’anima se noi italiani non sapremo riconciliarci con la cosa pubblica, con l’etica pubblica. Anzi: c’è il rischio che la legge diventi un mantello che copre i malfattori. L’ha osservato, d’altronde, anche Cantone: gli appalti truccati sono sempre costruiti sul rispetto formale delle regole, come un abito cucito su misura per questo o quell’imprenditore. E quando le regole si contano a migliaia, il sarto non ha che da scegliere la stoffa migliore per accontentare i suoi clienti.

Ecco, qui entra in scena l’ossimoro, il paradosso della semplificazione. Sta di fatto che le forbici di Renzi fendono l’aria con due decreti legge omnibus (vietati dalla Consulta) e un disegno di legge delega. Totale: 120 articoli, un centinaio di pagine. Il solo comunicato stampa diramato da Palazzo Chigi inanellava 2.287 parole. Parole che reclamano altre parole di legge per ricevere attuazione (non prima del 2015). E del resto sono quasi 500 i provvedimenti attuativi fin qui rimasti in mezzo al guado. Il governo lo sa, e infatti aveva predisposto un meccanismo per rendere in futuro certa l’attuazione delle leggi. Dopodiché i meccanici (le burocrazie
ministeriali) hanno bloccato il meccanismo, depennandolo dal testo approvato in Consiglio dei ministri.

Ma che cos’è l’attuazione, se non altro diritto che va ad aggiungersi al boccale del diritto? Nella legislatura in corso abbiamo già inghiottito 3.917 commi, 55 leggi, 41 decreti. E il gabinetto Renzi (con una media di 3,33 decreti al mese) ha superato di gran lunga i 4 esecutivi precedenti. È insomma la loro quantità che stroppia, non soltanto la loro qualità, non solo la collezione di norme astruse o strampalate di cui racconta Gian Antonio Stella nel suo ultimo volume (Bolli, sempre bolli, fortissimamente bolli ). Da qui la conclusione: per semplificarci l’esistenza, nonché per liberarci dai corrotti, serve una legge in meno, non un decreto in più.

 

 

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