19 Settembre 2024

Occorre un patto sociale a sostegno a chi non ha nulla. Ma la libertà può comportare sacrifici

Il recente successo di Macron in Francia e quello, certo meno centrale in geopolitica ma comunque significativo, di Golob nella Slovenia finora sovranista sono stati due segnali incoraggianti per le democrazie liberali e per la Ue. Ma non devono alimentare, nei difficili mesi a venire, la pericolosa illusione dello scampato pericolo. Nella tenuta sociale delle nazioni europee il bicchiere è ancora vuoto almeno per metà di fronte al doppio impatto di pandemia e guerra, alle cadute del reddito, alla corsa dell’inflazione, ai costi dell’energia, a ulteriori e prevedibili ondate migratorie (ne saremo coinvolti noi italiani per primi, quando le carestie innescate dal conflitto anche economico spingeranno a nord decine di migliaia di africani). Il richiamo dell’uomo (o della donna) forte e, soprattutto, delle risposte semplificate rispetto alla complessità decisionale dei sistemi liberali è assai sensibile nelle nostre comunità. Come pure i fattori identitari, nostalgici ed emotivi che spingono a ciò che Bauman chiamava «retrotopia».
Colpiva, all’inizio dell’aggressione all’Ucraina, l’83% di russi che s’è schierato decisamente con Putin. Frutto della «disinformazia», ci siamo detti. In realtà, altre percentuali molto più vicine a noi devono farci riflettere. A fine 2019, e dunque prima della crisi da pandemia e con il governo dei due populismi nazionali appena caduto, il Censis rilevò che un italiano su due (48,2%) voleva un «uomo forte al potere» che non dovesse «preoccuparsi di Parlamento ed elezioni»; l’idea trovava più consensi tra operai (62%), persone meno istruite (62%) e con redditi bassi (56,4%) ed era spiegata dal Censis con «l’inefficacia della politica ed estraneità da essa», elementi che «aprono la strada a disponibilità che si pensavano riposte per sempre nella soffitta della storia», come l’attesa messianica di colui «che tutto risolve» (insomma, Salvini col suo appello ai «pieni poteri» di quell’estate, non aveva letto così male gli umori popolari, altro che abuso di mojito al Papeete: poi la mossa del cavallo di Matteo Renzi, con l’apertura a un governo Pd-M5S, lo ha spiazzato, cambiando gli eventi).
Nella Francia di cui abbiamo celebrato la saggezza il 24 aprile, i sondaggi preelettorali raccontavano che solo il 51% dei giovani considerava «molto importante vivere in un Paese democratico», quasi la metà del campione riteneva «comprensibile» la violenza politica contro gli eletti e uno su cinque «accettabile» la devastazione degli spazi pubblici (gilet gialli e rivolte nelle banlieue hanno almeno un 20% di tolleranza, dunque; astensionismo e voto alle estreme si spiegano anche così). Può andare peggio. Se il sondaggista Jerome Fourquet (istituto Ifop) su Le Figaro configurava correttamente il «clivage», la faglia aperta, tra due blocchi, fronte repubblicano e fronte sovranista, tra Francia agiata e colta e Francia popolare, mandando in archivio la dialettica classica tra destra e sinistra, è bene considerare di nuovo qualche cifra di casa nostra. Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, la guerra nel 2022 è già costata all’Italia un punto di Pil (18/19 miliardi). L’ultimo rapporto Svimez fotografa tre milioni di italiani occupati ma poveri, con stipendi troppo bassi, concentrati al Sud. Se la guerra proseguisse a lungo, lo spettro della stagflazione non sarebbe fantasia.
Di fronte alle crisi innescate nel 2008-2010 da Lehman Brothers la risposta fu sbagliata, tutta virata al contenimento del debito pubblico. Così la dinamica esclusi/inclusi fu esplosiva politicamente dal 2016 in avanti, con la Brexit, la vittoria di Trump, la crescita di forze sovraniste nei principali Paesi europei, la già citata anomalia italiana del doppio populismo al governo con proposte esiziali per la nostra economia. Stavolta le banche centrali avranno di fronte un dilemma del diavolo tra inflazione e recessione, necessità di rialzare i tassi per contenere l’impennata dei prezzi e rischio di deprimere così ulteriormente un quadro che già tende alla depressione per cause belliche.
La prima risposta che le democrazie liberali devono preparare è, dunque, economica nel breve e nel medio termine. È assai invocato un patto sociale che garantisca sostegno a chi non ha e non conta nulla: ottimo, ma lo scatto deve essere visibile, quantificabile, tradursi in programmi (praticabili) che non lascino al populismo sovranista la bacchetta magica di soluzioni inattuabili, seducenti fin dentro alla cabina elettorale e devastanti a urne chiuse (fuori dall’Europa le piccole patrie da sole annegano nel mondo globale, i più colpiti di domani sarebbero proprio i più disagiati e frustrati di adesso; fuori dalla democrazia liberale i primi diritti a essere conculcati sarebbero proprio quelli di chi, oggi, si sente scarsamente rappresentato).
E tuttavia la seconda risposta, a medio e lungo termine, deve essere rivolta non ai portafogli ma, piuttosto, a ciò che sta appena sotto di essi: i cuori. Si tratta di spiegare che la democrazia può richiedere sacrifici, ben oltre la metafora del condizionatore usata da Draghi, come gli ucraini stanno mostrando al mondo. In uno splendido articolo su Atlantic, Anne Applebaum spiega che la vicenda ucraina, velo strappato dai nostri occhi, prova come non esista «un ordine liberale mondiale» e non esisteranno neppure «regole, se nessuno si batterà per sostenerle»: «Se le democrazie non si difenderanno tutte assieme, le forze dell’autocrazia le distruggeranno». Applebaum propone una vera battaglia culturale che risponda colpo su colpo a quella ingaggiata dai sovranisti per le coscienze occidentali, dal potere cleptocratico russo che ha corrotto per un decennio politici e intellettuali nostrani tramutandoli in agenti di influenza più o meno consapevoli (il dibattito nei talk sulle responsabilità della guerra ne è un epifenomeno penoso ma significativo). Come? Magari cominciando da un’università in lingua russa che a Vilnius o a Varsavia ospiti intellettuali fuggiti dal regime moscovita. Un posto nel quale, aggiungeremmo noi, disegnare contro la retrotopia, un Pantheon europeo. Magari ricordando ai ragazzi chi furono Mazzini e Churchill. E cosa sognassero Jo Cox, la giovane parlamentare laburista uccisa alla vigilia della Brexit, e Pawel Adamowicz, il sindaco di Danzica che raccontava la propria città come un porto sempre aperto a chi arriva e fu assassinato a quattro mesi dal voto europeo del 2019: proprio quelle elezioni da cui venne il primo segnale di come l’ondata sovranista si possa arginare, con l’intelligenza e col coraggio.

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