Fonte: Corriere della Sera
di Federico Fubini
Il presidente Usa continua ad adottare oppure a sollecitare decisioni aggressive. E l’Europa ha scelte dure da affrontare, se vuole il ruolo guida nel mondo che reclama
A volte certi episodi minori sono come uno strappo nella rete che rivela in quale situazione versino oggi l’Europa e, al suo interno, l’Italia. Chi si ferma a guardare attraverso quello squarcio vedrebbe un vasto campo di gioco e una squadra — la nostra — che si ostina a giocare a pallavolo mentre ormai le altre, dal resto del mondo, ci stanno affrontando in una spettacolare partita di rugby. Le circostanze sono di quelle che i media internazionali registrano in modo rapido, slegate fra loro. A Washington è stato appena licenziato un uomo che era stato determinante per la tenuta finanziaria dell’Europa, benché molti non ne abbiano mai sentito pronunciare il nome. Negli stessi giorni a Bruxelles lo spagnolo Josep Borrell, vicepresidente della Commissione, si è dovuto scusare per aver pronunciato una verità sconveniente sul cambio climatico. L’uomo licenziato a Washington si chiama David Lipton, ha un dottorato in economia a Harvard, ha lavorato nelle amministrazioni di Bill Clinton e Barack Obama e da nove anni era numero due del Fondo monetario internazionale. Di fatto per lunghi periodi ha gestito l’intera organizzazione. Se l’euro non è andato in pezzi negli anni scorsi, è anche grazie al lavoro tenace di questo funzionario.
Lipton è l’incarnazione stessa del washingtoniano internazionalista, convinto che il suo ruolo nel mondo obblighi l’America a sostenere amici e alleati sulla base di valori, regole e istituzioni comuni. Nella sua visione l’America è la «città che risplende sulla collina» — nella citazione evangelica ripetuta da John Fitzgerald Kennedy, Ronald Reagan e Obama — ispirazione al resto del mondo. Lipton la settimana scorsa è stato cacciato dal nuovo direttore generale del Fondo, la bulgara Kristalina Georgieva. La ragione, mai spiegata, è che la Casa Bianca di Donald Trump ha esercitato molta pressione: «Difficile credere che, qualunque riorganizzazione fosse utile al Fmi, essa richiedesse l’uscita di David Lipton — ha commentato l’ex capoeconomista del Fondo, Olivier Blanchard —. La sua partenza è un grave colpo per l’istituzione».
Questo era del resto l’obiettivo: quel funzionario era espresso da un Paese il cui presidente non ha più alcun interesse nella «città che risplende sulla collina». Interpreta la propria convenienza in modo diverso. Per Trump l’America non è più né un modello né un garante per l’Europa, e l’Europa è un insieme di potenze minori intente a trarre slealmente profitto dall’America. Quest’ultima è vittima — non leader — dell’ordine internazionale che lei stessa aveva creato decenni fa. Il licenziamento di Lipton è solo un mattone di più che Trump sbriciola del sistema multilaterale. Non il primo, ovviamente: ha già ridotto alla paralisi l’Organizzazione mondiale del commercio, scatenato guerre economiche bilaterali, tolto gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi sul clima. Ora intende ridimensionare anche il ruolo del Fmi in caso di nuove crisi.
Persino la rivalità trumpiana nei confronti della Cina di Xi Jinping esclude di fatto l’Europa, perché non si fonda su valori o ideologie — il mondo libero contro la superpotenza autoritaria — ma è un puro confronto di potere fra due leader ugualmente nazionalisti. Del resto questo stato di cose non cambierà radicalmente anche se Trump in novembre non fosse rieletto: persino il candidato democratico più legato al mondo di ieri, l’ex vicepresidente Joe Biden, fa sapere che non intende riportare i dazi unilaterali contro Pechino ai livelli minimi di quando alla Casa Bianca c’erano Obama e lui stesso.
Questo non è più il «mondo piatto» del libro di Thomas Friedman del 2005. La relativa tregua attuale della Casa Bianca sui dazi dà un po’ di respiro all’Europa, niente di più: questo resta un mondo post liberale, pieno di nuovi ostacoli agli scambi e di antiche logiche di potenza. Non è neanche più il tempo del clintoniano «it’s the economy, stupid» perché per la politica non conta più solo la crescita, anzi. Fra gli elettori della Brexit l’affermazione dell’identità viene prima del tornaconto materiale e persino l’America usa contro gli alleati la propria potenza commerciale — l’accesso al dollaro, o al mercato — come leva per piegarli politicamente. Chi fa affari con l’Iran è fuori da Wall Street. Chi compra reti di telecomunicazioni dai cinesi rischia dazi contro le auto.
Questo mondo non è migliore di quello di ieri, a prima vista, ma oggi è quello che abitiamo e qui l’Europa sembra un sopravvissuto. La sua architettura era disegnata per permetterle di prosperare di un sistema globalizzato retto da organi multilaterali, dove le norme dell’economia valevano per tutti e restavano separate dalla lotta fra potenze grazie al consenso delle élite internazionali. Possiamo avere nostalgia di quel mondo, oppure no, ma non c’è più. Eppure l’Europa resta strutturata per viverci dentro.
Non ve n’è sintomo più crudele della cosiddetta «gaffe» di Borrell. Ha detto giorni fa l’Alto rappresentante della politica estera di Bruxelles, ricordando i limiti dell’evangelizzazione ambientalista dell’Europa nel mondo. «Mi piacerebbe sapere se i giovani che manifestano nelle strade di Berlino, chiedendo misure contro il cambio climatico, sono coscienti dei costi. Se capiscono che dovranno ridurre il loro tenore di vita per compensare i minatori di carbone polacchi che resteranno disoccupati». Borrell ha fatto capire che l’Europa ha scelte dure da affrontare, se vuole il ruolo guida nel mondo che oggi reclama. Ha detto che la politica e la potenza non sono mai gratis. Apriti cielo: la Commissione europea si è ufficialmente dissociata e lo spagnolo ha dovuto scusarsi per aver parlato di quella che chiama la «sindrome Greta»; aveva osato dire una verità spiacevole in un’Europa abituata a vivere protetta. Ma un sistema che non sopporta la verità è un sistema politico debole. E l’Europa, oggi, non se lo può permettere.