23 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

Merkel - Renzi

di Paolo Mieli

Non risulta l’esistenza di un elettore tedesco che abbia abbandonato i cristiano-democratici della cancelliera perché non incoraggia politiche europee che consentano a Grecia, Italia e Francia (e a quel punto chissà quanti altri Paesi) di rimettersi a spendere come facevano in passato

Il partito europeo che ha in antipatia Angela Merkel gioisce per il secondo ceffone da lei preso nel volgere di pochi giorni. Due settimane fa la Cdu era stata umiliata (e addirittura scavalcata dagli antieuropeisti di Frauke Petry) nel Meclemburgo – Cispomerania. Domenica scorsa, a Berlino, i cristianodemocratici hanno conservato sì il secondo posto, ma hanno perso quasi il 6% dei voti. E a peggiorare le cose ha contribuito la Spd di Sigmar Gabriel che di suffragi ne ha smarriti altrettanti. Può essere considerato confortante il fatto che Alternative für Deutschland stavolta non abbia sfondato e sia arrivata quinta, dietro Grünen e Linke. Sicché, se si confermasse tale trend, l’esultanza del partito europeo antitedesco può essere considerata prematura, nel senso che — come spiega bene l’ultimo numero di Der Spiegel— alle elezioni politiche dell’ottobre 2017, la Merkel potrebbe essere ancora in grado di conquistare il suo quarto mandato. Ma gli antipatizzanti di Angela non disperano che il contesto della crisi europea possa assestarle il colpo decisivo.
Effettivamente gli elettori tedeschi da un po’ di tempo castigano la Merkel. Ma, a quel che rilevano i sondaggi di opinione, la puniscono non per i suoi demeriti bensì in virtù dell’atto più importante della sua lunga carriera politica: l’aver spalancato le porte della Germania a centinaia di migliaia di migranti siriani. Un gesto che le valse il riconoscimento della comunità internazionale e che servì, nell’estate del 2015, a rompere l’onda xenofoba che stava montando in tutto il continente.
Adesso, soprattutto a causa dei risultati elettorali di cui si è detto, la cancelliera è costretta a rivedere i termini di quell’annuncio. E a tenere in materia di migrazioni una posizione più rigida. Anche per la pressione del cosiddetto gruppo di Visegrad, un insieme di quattro Paesi ex comunisti le cui redini sono in mano al reazionario ungherese Victor Orbán e a quello polacco Jaroslaw Kaczynski. Affiancati — lo ricordiamo per inciso — da due socialdemocratici: lo slovacco Robert Fico e il ceco Bohuslav Sobotka.
Non risulta invece — dai già citati sondaggi — l’esistenza di un elettore tedesco che abbia abbandonato la Cdu perché non incoraggia politiche europee che consentano a Grecia, Italia e Francia (e a quel punto chissà quanti altri Paesi) di rimettersi a spendere come facevano in passato. Gli elettori del Meclemburgo, della Cispomerania e della stessa Berlino sono insensibili ai moniti dei sedicenti eredi di John Maynard Keynes, si mostrano refrattari al tema della flessibilità (cioè della libertà di spesa) per i Paesi mediterranei e anzi, quando gliene si dà l’occasione, affermano che — ove mai fosse concesso alle terre dove fioriscono i limoni un diritto a tornare a forme di pubblica dissipazione — preferirebbero non aver più conti in comune con loro. Anche perché una discreta dose di «flessibilità» è già stata elargita a questi Paesi. Con il risultato che si ha quando si consente ad un alcolista di lasciar perdere le cure e bere un bicchiere di vino.
Per quel che riguarda l’Italia, detentrice del record del debito pubblico in Europa, già il 3 novembre del 2015 la Frankfurter Allgemeine Zeitung ci aveva avvertiti con cortesia che rischiavamo di apparire come un Paese che, «accantonato l’obiettivo cruciale di ridurre la mastodontica spesa» aveva adottato una «cosmesi di superficie», tanto da riportare alla mente «un passato di gestione disinvolta delle finanze». Per poi suffragare l’editoriale con qualche numero. I Paesi che negli ultimi anni hanno tagliato la spesa pubblica — come l’Inghilterra (dal 48,8 al 43 per cento), la Spagna (dal 46 al 43,3 per cento), l’Irlanda (dal 47,2 al 35,9 per cento) — sono cresciuti, rispettivamente, del 2,3 %, del 3,2% e del 6,9%. L’Italia che nello stesso periodo ha addirittura incrementato la spesa dal 49,9 al 50,7%, è ferma allo 0,8 per cento. Ma qualche taglio lo abbiamo fatto… A febbraio il presidente della Corte dei Conti Raffaele Squitieri fece educatamente rilevare «il parziale insuccesso o, comunque, le difficoltà incontrate dagli interventi di revisione della spesa» mettendo in evidenza come quelle poche riduzioni fatte all’italiana si sono spesso rivelate operazioni di «contrazione se non di soppressione di servizi alla collettività». Pochi giorni fa l’ex commissario a questa delicata materia, Roberto Perotti, ha spiegato per filo e per segno come per 25 miliardi tagliati da un capitolo di spesa ce ne siano stati altrettanti elargiti tramite altre voci.
Intanto il debito è lievitato. Peggio. Sostiene uno studio della fondazione David Hume, che se si esamina la traiettoria degli ultimi quindici anni, la velocità di crescita del debito pubblico è risultata addirittura superiore (quasi sempre) alla velocità di crescita dei prezzi. Quel che rimane stabile sono i nostri riti. Ogni anno lo iniziamo con i grandi festeggiamenti per l’annuncio della prossima riduzione del rapporto debito/Pil. Dopo il primo trimestre (a volte più in fretta) tiriamo fuori fantasiosi pretesti atti a spiegare che, in via del tutto eccezionale, stavolta non se ne farà niente. Ma l’ultimo trimestre torna il buonumore perché possiamo dedicarlo ai preparativi per la festa dell’annunciazione dei progetti di riduzione del debito. Per l’anno nuovo.
Nel contempo i superstiti fautori del taglio alla spesa vengono ormai additati come nemici dello sviluppo. Perfino chi si limita a denunciare gli sprechi. Nel lasciare il suo incarico, un altro ex commissario straordinario per la spending review, Carlo Cottarelli, raccontò di aver partecipato in uno dei suoi ultimi giorni di lavoro a una riunione al ministero dell’Agricoltura. In quell’occasione lo colpì che, nonostante fosse una giornata di sole, i termosifoni andassero al massimo e, per il gran caldo, si dovessero tenere aperte le finestre. Lo fece notare agli altri partecipanti al consesso che però minimizzarono. Tutti. Con un sorrisino. Quasi infastiditi. Be’, la prossima volta, prima di spiegare ad Angela Merkel come si fa a promuovere lo sviluppo in Europa, ricordiamoci almeno di spegnere quei termosifoni.

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