L’elettorato ha dato fiducia alla destra, a questa destra, perché si è convinto che servisse una novità politica di tale forza per realizzare qualcosa che è al di fuori dall’ordinario, anche correndo qualche rischio
Dopo il recente successo elettorale sono ancor più aumentate le probabilità che la destra governi il Paese per l’intera durata della legislatura. È una destra, come si sa, in buona parte diversa da quella a trazione berlusconiana che l’Italia ha conosciuto nei decenni trascorsi. Oggi la sua componente maggioritaria non solo ha un passato estraneo all’ufficialità repubblicana, ma è più grintosa e soprattutto più desiderosa di rappresentare una svolta. D’altra parte il grande successo di Fratelli d’Italia e la vittoria personale di Giorgia Meloni nascono proprio da ciò: dal desiderio diffuso che il Paese conosca una stagione di decisi cambiamenti. Bisogna intendersi però su che cosa. Ad esempio, sostituire gli occupanti di questa o quella poltrona è forse necessario per attuare nuove politiche, ma agli occhi dell’opinione pubblica non è certo il segno di alcun cambiamento. Può essere una scelta comprensibile ma non costituisce alcuna novità. Tanto meno lo è l’intenzione di offrire nuovi sfondi storico-identitari al Paese. Alla stragrande maggioranza del quale di D’Annunzio, del duce e dei futuristi non importa oggi quasi nulla (come del resto assai poco gli importava ieri di Duccio Galimberti e del Salone del Libro): può dispiacere — a me personalmente dispiace — ma è così. Ben altri sono gli ambiti nei quali l’opinione pubblica, in specie quella parte che l’ha votata, si aspetta che la destra mostri la sua capacità di cambiare le cose.
E naturalmente sono ambiti dove cambiare non è per nulla facile. Per molti aspetti, infatti, l’Italia che la destra eredita è un Paese con le spalle al muro. Ricordo alcuni fatti peraltro notissimi: siamo un Paese geologicamente sfasciato che letteralmente ci frana sotto i piedi e per quello che sta in piedi è devastato dal turismo di massa fino al punto che luoghi come Venezia, Firenze, Capri (il cui scempio da solo meriterebbe un libro) rischiano ormai una virtuale disintegrazione, mentre arabi, russi e cinesi comprano tutto ciò che è possibile comprare; un Paese dove non si fanno più bambini, sicché si calcola che già nel 2035 avremo meno di un lavoratore per ogni pensionato e dove l’evasione fiscale — che per certe categorie e per certe parti della Penisola è la regola — raggiunge la cifra mostruosa di circa 90 miliardi di euro l’anno: due fatti che messi insieme rappresentano un’ipoteca angosciosa sulla possibilità di continuare in futuro a finanziare il nostro debito pubblico. Ancora: siamo un Paese dove la sanità pubblica è sempre più in sofferenza, per cui si possono aspettare mesi per una visita o un esame medico; dove i servizi di trasporto urbano da Roma in giù (Roma compresa) sono un calvario e dappertutto il trasporto ferroviario suburbano e regionale agonizza; dove per l’istruzione spendiamo meno che ogni altro Paese della Ue, dove abbiamo più laureati solo della Romania e nel quale metà dei nostri quindicenni, dopo dieci anni di scuola dell’obbligo, non sono in grado di capire che cosa vuol dire un testo scritto in italiano. Siamo un Paese con una giustizia dai tempi biblici servita da un corpo di magistrati troppo spesso inadeguati (per usare un cauto eufemismo) e nelle cui carceri l’anno scorso si sono registrati 7 suicidi al mese (il numero più alto da quando il dato viene registrato); dove la stragrande maggioranza della popolazione non legge neppure un libro all’anno; dove 2 milioni e trecentomila famiglie non hanno alcun collegamento al web e non possiedono neppure un cellulare, mentre altre 11 milioni vanno su internet solo con il cellulare, ma dove, in compenso, non cessa di inghiottire soldi un sistema radiotelevisivo pubblico di tipo sovietico-libanese.
L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo ma alla fine un dato risulta evidente: moltissimo di ciò che nel nostro Paese non funziona rimanda in un modo o nell’altro a un solo fattore: allo Stato, alla sfera pubblica (quella centrale come quella periferica dei «territori»), alle regole con cui questa funziona e al suo personale. Cambiare il modo d’essere di tutte le amministrazioni pubbliche è ciò di cui l’Italia ha il più urgente bisogno. Senza di che tutto il resto è inutile, senza di che qualunque svolta sarà solo fumo negli occhi, qualunque pretesa frattura solo un’innocua incrinatura. Si tratta di un vasto, vastissimo programma, certo. Ma se il Paese ha dato fiducia alla destra, a questa destra, è perché si è convinto, per l’appunto, che servisse proprio una novità politica di tale forza per realizzare qualcosa che è al di fuori dall’ordinario. Perché ha pensato che valesse anche la pena di correre qualche rischio (ad esempio sul piano internazionale, rischio che per fortuna non c’è stato) pur di cercare di uscire dalla strettoia di incapacità, di indecisioni e di inefficienza, che da decenni ci stanno soffocando portandoci alla paralisi.
Il fatto è però che per affrontare con qualche speranza di successo un’attesa di tale portata non bastano i numeri di una maggioranza. Non serve la leadership di un capopartito per quanto di successo. Serve, invece, una leadership capace di dar voce al Paese parlando a tutto il Paese. Giorgia Meloni ne avrebbe probabilmente la capacità e la passione necessari ma finora non c’è riuscita. In lei è ancora troppo preponderante la dimensione del battibecco polemico, della mimica da comizio, il gusto della battutaccia e del mandare (metaforicamente) l’avversario a quel paese. Il suo, insomma, resta un discorso fortemente divisivo, acre, concentrato sul momento. Laddove una leadership nazionale rivolta alle grandi cose, ai grandi obiettivi che davvero contano e segnano una svolta, quella svolta di cui l’Italia ha un assoluto bisogno, dovrebbe invece rivolgersi all’intera collettività nazionale. Quindi volare alto, muoversi al di sopra delle divisioni della lotta politica quotidiana, trovare i toni e le parole che arrivano, più che alle menti, ai cuori di tutti. Facendo un appropriato uso dell’arte retorica? Certo: non è stato forse sempre improntato ad un’alta retorica il discorso dei capi democratici di cui tutti ricordiamo i nomi? Per tornare a vivere come merita e come è ancora nelle sue possibilità, l’Italia ha bisogno, com’è ovvio, di scelte politiche appropriate e di comportamenti pubblici virtuosi: e sarà questo, è questo, il vero banco di prova della destra. Ma non basta. L’Italia ha egualmente bisogno di ascoltare nelle parole di chi la guida un timbro nuovo che la scuota e la risvegli.