22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Antonio Polito

Dall’inizio della fase due in poi vediamo infatti confrontarsi sempre più, e talvolta opporsi, posizioni differenti. È naturale che si esprimano, e anche un bene: sono parte del ritorno alla normalità


L’«unità morale» di cui ha parlato il presidente Sergio Mattarella è un sentire comune. Il «nuovo contratto sociale» che ha auspicato il governatore di Bankitalia Ignazio Visco si basa su una convenienza comune. L’Italia che esce dall’emergenza è pronta per entrambe? È d’accordo sull’essenziale? È oggi in grado di individuare un comune destino, un bene comune? Ciò che era apparsa una domanda retorica nei giorni del dramma, quando la priorità era salvare vite e tutti hanno partecipato senza tentennamenti allo sforzo nazionale, non è più scontato oggi, ché alla difesa della vita dobbiamo un po’ alla volta aggiungere altri valori, meno assoluti e dunque inevitabilmente più forieri di discordia. Era inevitabile che sarebbe successo, e solo qualche ingenuo poteva confondere commozione e canti sui balconi con la fine delle differenze e del pluralismo. Dall’inizio della fase due in poi vediamo infatti confrontarsi sempre più, e talvolta addirittura opporsi, visioni diverse: alcune esistenziali, altre culturali, altre più semplicemente politiche. È naturale che si esprimano, e anche un bene: sono parte del ritorno alla normalità.
Ma se si trasformeranno in faziosità e lite, se ridaranno fiato a egoismi e corporativismi, allora bisogna sapere che ci impediranno di reagire insieme con la forza di una comunità, indebolendo così la speranza di ricostruzione, o se preferite di rinascita. Il sintomo più palese e preoccupante di questo rischio è quello che potremmo chiamare «negazionismo». È una sorta di scetticismo portato all’estremo, che spinge a reinterpretare le vicende di questi mesi o a dimenticarle proprio, fino a negarne addirittura la realtà. C’è un’ampia gamma di sfumature in questo atteggiamento, non è tutto e solo arancione. Né è tutto e solo teoria del complotto, una concezione paranoica della politica che immagina che l’Italia sia caduta vittima di un inganno di poteri stranieri interessati alla spoliazione delle nostre ricchezze; non si capisce bene chi, visto che tutti i «soliti noti» delle teorie cospirative, dagli americani ai cinesi, dagli inglesi ai francesi, se la sono passata altrettanto male e talvolta pure peggio di noi.
C’è però anche un livello più innocuo e meno consapevole, ma più diffuso. C’è per esempio la nonchalance con cui ormai portiamo le mascherine, tra il mento e la gola, dove non servono. C’è il fastidio per ogni forma di controllo, dopo tanto autocertificarsi, e che fa rifiutare ad alcuni anche l’uso di una app di certo meno invasiva della privacy di un qualsiasi account su Facebook o acquisto su Amazon. C’è l’idea che il virus sia miracolosamente sparito, non solo indebolito o ridotto nella sua circolazione, ma proprio sparito, scomparso, sciolto al sole, e dunque tutte le precauzioni sarebbero diventate inutili. C’è perfino la nostalgia di chi pensa che si stava meglio quando si stava peggio, perché almeno il cielo della Lombardia era più pulito, le stragi del sabato sera sono state sospese per un po’ e abbiamo ricominciato a parlare con i figli, non potendo fare altro. C’è infine, a un livello più ancestrale, chi ha paura di ricominciare, e non vorrebbe tornare a sperimentare lo stress e la fatica della vita di prima. Chi ha sperimentato in questi mesi una sorta di «comunismo di guerra», in cui lo Stato si occupava di tutto, anche della sussistenza, e immagina che possa andare avanti così ancora per molto, distribuendo risorse che si immaginano infinite.
Se però nei prossimi mesi noi non saremo d’accordo su ciò che è davvero successo, sulle sue cause e i suoi effetti, difficilmente potremo essere d’accordo su come uscirne. E il rischio c’è, perché ognuno degli atteggiamenti qui descritti si ritrovano in questa o quella forza politica, nell’opposizione ma anche nella maggioranza, e ne vengono così confermati e rafforzati. Eppure, per comprendere quanto importante possa essere la coesione nazionale in un momento così, basta guardare a ciò che sta succedendo in questi giorni negli Stati Uniti.
Ogni crisi è anche un’opportunità, e tanti italiani saranno sicuramente in grado di sfruttarla, per rimettersi in carreggiata, per riprendere il cammino, o anche per inventarsene uno nuovo. Ma ciò che rende una comunità forte è la capacità di farlo insieme, provando a portare con sé anche coloro che sono usciti peggio da questo sommovimento sociale e morale. Ieri l’Istat ci ha detto che ormai le donne inattive, uscite cioè dal mercato del lavoro (si spera temporaneamente) sono quasi il doppio degli uomini; e che in un solo mese il calo degli occupati tra i contratti a termine è il doppio di quello tra i cosiddetti «garantiti».
Un tempo, per condannare le discriminazioni esistenti nei Paesi opulenti, si parlava di «società dei due terzi», nelle quali cioè un terzo era rimasto fuori. Oggi rischiamo di cadere in una società delle due metà. E quale Paese può sperare di risollevarsi e prosperare utilizzando solo la metà delle sue forze ed energie? Affermare questa consapevolezza di un destino comune, del bene comune, è molto più utile che negare la unicità e la portata della tragedia da cui stiamo, forse, uscendo.

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