Fonte: Corriere della Sera
di Luigi Battista
Il programma concordato contiene di tutto: dalle pagine dell’accordo emana qualcosa di irresistibilmente artificioso. A partire dal fatto che un’intesa sia stata raggiunta a prescindere dalla leadership che dovrebbe incarnarla
Le vicissitudini che dovrebbero accompagnare il problematico parto di un governo tra Cinque Stelle e Lega sono riuscite a sommare due difetti tra loro opposti. Troppa lentezza, troppa farraginosità nelle trattative tra i due partner, incertezza, richiesta continua di proroghe, dilazioni, veti, impaludamenti in un’intesa che non vuol farsi chiamare intesa politica (sa troppo di «inciucio», un peccato mortale nella neo-lingua oltranzista).
E adesso, con l’improvviso arrivo di un documento programmatico lunghissimo, iper-generico nella sua imponenza cartacea, troppa frettolosità, troppa ansia di raggiungere un risultato per non tramortire un elettorato sempre più deluso e angosciato, con Beppe Grillo addirittura che nel suo blog manifesta apertamente la propria insofferenza per queste liturgie snervanti.
Il programma contiene di tutto, il che è abbastanza frequente nell’elaborazione di progetti smisurati in cui conta di più la declamazione di princìpi che non la loro realizzazione. Un colpo per accontentare gli uni, la deriva securitaria e d’ordine sul tema dell’immigrazione che è la carta d’identità leghista, e un altro per non inquietare la base Cinque Stelle, introducendo non solo il reddito di cittadinanza, come era scontato vista la sua centralità nel trionfo grillino specialmente al Sud, ma anche la legge sul conflitto di interessi, il drappo rosso da agitare per accontentare la platea. Eppure, emana da quelle pagine qualcosa di irresistibilmente artificioso, poco convincente. I due contraenti di Lega e Cinque Stelle richiamano legittimamente l’esperienza tedesca, la lunga negoziazione tra il partito di Angela Merkel e dei socialdemocratici. Ma dovrebbero chiedersi perché a nessuno verrebbe in mente di dubitare della serietà del programma tedesco, mentre è così facile dubitare della serietà di quello italiano. Per tre ragioni. Una è l’individuazione, nel documento tedesco, di alcuni punti irrinunciabili, pochi ma qualificanti: in quello italiano presentato ieri, tanti, generici e vaghi. La seconda è che la distanza tra il partito della Merkel e quello socialdemocratico è di molto inferiore a quella che ancor oggi divide i 5 Stelle e la Lega, malgrado la comune propensione «populista» e anti-euro. La terza è che l’elaborazione del programma in Germania fa tutt’uno con l’individuazione della squadra che dovrebbe realizzarlo, a cominciare dalla figura del capo del governo, Angela Merkel appunto.
Questa idea che si può tranquillamente fare a meno dei nomi di un governo, questione spinosa da rimandare all’infinito o architettando marchingegni istituzionali che sfiorano il ridicolo, a cominciare dalla loro grottesca denominazione, è uno dei frutti del semplicismo grillino che considera le persone meri esecutori di un meccanismo impersonale e astratto. Ma che si raggiunga un’intesa senza avere la minima idea della leadership che dovrebbe incarnarla conferisce alla gestazione del documento programmatico qualcosa di irreale e di decisamente poco credibile, come se davvero nelle prossime ventiquattr’ore si potesse trovare una soluzione vanamente inseguita in due mesi. È sbagliato liquidare con sarcasmo quello che sta accadendo, perché la formazione di un nuovo governo uscito dal risultato travolgente del 4 marzo è un’impresa difficilissima, complicata, quasi una missione impossibile. Ma la faciloneria con cui queste difficoltà vengono affrontate non promette nulla di buono. Per ora.