Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Polito
L’esecutivo è stato definito una Grande coalizione dei populismi. Ma in realtà si tratta di una specie di Grande somma dei due programmi e delle rispettive promesse
Per spiegare gli stratosferici livelli di consenso che avrebbe raggiunto la Lega, così alti da far dire «non ci credo» perfino a Salvini, il sondaggista Nicola Piepoli ne ha attribuito la ragione «a due eventi negativi: Genova e la nave Diciotti». Svelando così il paradosso al cuore della situazione politica italiana. Di solito, infatti, i partiti al governo si avvantaggiano di ciò che in inglese si chiama «effetto feel good»: meglio vanno le cose, più soddisfatti sono gli elettori. Ma nell’Italia reduce dalla rivoluzione elettorale del 4 marzo stiamo vivendo, e forse vivremo ancora per un po’, una diversa stagione: gli eventi negativi ci rendono governativi, perché appaiono la conferma delle colpe di chi c’era prima e rafforzano la convinzione che abbiamo fatto bene a mandarli via. Ecco perché i nemici del governo farebbero un grosso errore a sperare nell’aiuto del «generale spread», e cioè in un aggravarsi della situazione economica e finanziaria del Paese che faccia rinsavire gli elettori. Le cattive notizie non portano bene all’opposizione. Almeno finché gli elettori si aspettano buone notizie dal governo.
Ma perché l’incantesimo duri, queste prima o poi devono arrivare. A Genova, per esempio, il crollo del ponte è stato addebitato a chi c’era prima. Ma sulla ricostruzione verrà presto giudicato chi c’è adesso, così come già comincia ad avvenire per la consegna delle case agli sfollati. Lo stesso discorso vale, su una scala più vasta e decisiva, per la manovra di bilancio.
Negli intendimenti di Cinque Stelle e Lega essa infatti dovrebbe contenere tutte le buone notizie di cui la maggioranza è capace. Lì dentro c’è il patto che Di Maio da una parte e Salvini dall’altra hanno firmato con i loro rispettivi elettori, come del resto avviene sempre in democrazia. La originalità della vicenda politica italiana fa sì però che non si tratti di un programma elettorale, ma di due programmi elettorali che si sommano, e talvolta si contraddicono, perché rivolti a gruppi sociali e a realtà territoriali spesso in competizione tra di loro. Il popolo, come si sa, non è unico; ce ne sono molti; e Cinque Stelle e Lega ne rappresentano due diversi e distinti, oltre che vasti.
Il governo che è nato dopo il voto, e solo perché le urne non avevano dato una maggioranza, è stato definito una Grande coalizione dei populismi, la prima di questo genere in Europa. Ma in realtà non si tratta nemmeno di una coalizione: come gli stessi esponenti dei due partiti si affannano a chiarire, è solo un’alleanza basata su un contratto. Una specie di Grande somma dei due programmi e delle rispettive promesse. E infatti finora il tandem Salvini-Di Maio ha funzionato alla perfezione grazie a una rigorosa spartizione delle rispettive aree di influenza: se tu non obietti sulla flat tax per le piccole imprese del Nord, io non obietto sul decreto dignità che danneggia le piccole imprese del Nord, e viceversa. È una sorta di nuova Yalta, un modello in scala minore dell’intesa che portò Roosevelt e Stalin, alleati in guerra ma concorrenti nel dopoguerra, a dividersi il mondo senza pestarsi i piedi. Quell’esperimento durò però poco, e si trasformò nel giro di pochi anni nella Guerra fredda tra le due superpotenze. Quanto resisterà la piccola Yalta italiana di cui l’avvocato Conte fa da notaio?
La manovra economica ce lo dirà. Se infatti in politica le somme sono possibili perché aritmetiche, cioè si può vincere in due e si può volare in due nei sondaggi, quando si arriva al bilancio dello Stato le somme si fanno inevitabilmente algebriche: perché ci sia un più ci deve essere anche un meno. L’istinto dei più scapestrati tra leghisti e pentastellati sarebbe di aggirare il problema prendendo in prestito tutti i soldi che servono. Ma i ministri più avvertiti — e c’è da sperare anche i due leader — sanno che anche così si produrrebbe un «meno», anzi un gigantesco «meno», e cioè la cifra a nove cifre degli interessi che i mercati ci farebbero pagare per quel debito.
Bisogna dunque augurarsi innanzitutto che il governo abbandoni ogni velleità di strategia della tensione con i vincoli europei di bilancio, evitando così di perdere insieme a Tria anche ogni credibilità. In questa materia il coltello dalla parte del manico non ce l’abbiamo noi. Ma se si rinuncia saggiamente a indebitarsi ancora, non resta che fare scelte. Non «compromessi» tra i due programmi elettorali, come li ha definiti Salvini, ma proprio scelte. Perché con le risorse limitate di cui dispone il bilancio dello Stato la cosa peggiore sarebbe disperderle per tener buoni i rispettivi elettorati, senza concentrarle dove possono essere utili per sostenere e accelerare la ripresa della nostra economia, dunque anche nella riduzione di un debito pubblico che per il nostro Paese e le future generazioni è un’autentica palla al piede.
Una coalizione di governo si distingue da una somma di interessi proprio perché ha un progetto, una direzione, e sa fare una sintesi. Se è troppo chiedere tutto ciò al presidente del Consiglio, che si trova a Palazzo Chigi un po’ per caso, non lo è pretenderlo dai suoi due vice. Durare è anche nel loro interesse. Con la legge di Bilancio possono dare la prova che davvero si ritengono un governo di legislatura: se così è, vuol dire infatti che hanno tutto il tempo per tradurre gradualmente gli impegni assunti con i loro elettori in una coerente e praticabile strategia di sviluppo al servizio del Paese. Meno tasse aiuta la crescita, sì, ma se corrisponde a meno spese. Più welfare aiuta la coesione sociale, ma se non produce meno occupazione. Lega e Cinque Stelle dovrebbero insomma sfruttare la luna di miele che stanno vivendo con l’elettorato per gettare le basi solide di un vero governo. Hanno il vantaggio di poter agire indisturbati: a questo giro non sarà certo un’opposizione evanescente e malmessa a poterli preoccupare.