22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

Camera

di Sabino Cassese

Dopo il risultato referendario, Grillo, il maggiore azionista della composita compagine vincente, chiede di andare al voto subito. Ma questo è impossibile per due ragioni

Oltre 19 milioni di italiani (quasi il 60 per cento dei votanti, ma solo il 37 per cento degli aventi diritto al voto) hanno accolto l’appello proposto da 103 senatori e 166 deputati rimasti soccombenti (ma — singolarità delle scelte renziane — anche da 151 senatori e 237 deputati della maggioranza) contro la proposta di riforma costituzionale votata dal 57 per cento dei parlamentari. Queste poche cifre fanno emergere il disallineamento tra Paese e Parlamento, tra maggioranza parlamentare e maggioranza referendaria, sul quale si è immediatamente inserito Grillo, il maggiore azionista della composita compagine vincente, chiedendo di andare al voto subito.
Ma questo è impossibile per due motivi. Il primo è che le leggi elettorali esistenti per le due camere sono tra di loro molto diverse (proporzionale a doppio turno, con premio di maggioranza, soglia di sbarramento e 100 collegi plurinominali, e proporzionale con premio di maggioranza, soglia più alta e liste bloccate, corretto dalla Corte costituzionale che ha abolito il premio di maggioranza e introdotto le preferenze): se si votasse con esse il blocco del nostro sistema politico sarebbe sicuro, perché una camera sarebbe all’opposizione dell’altra. Il secondo è che su ambedue le leggi gravano gravi ipoteche. Sulla prima, quella di Calderoli, il giudizio della Corte costituzionale. Sulla seconda il giudizio di molte forze politiche spaventate dai risultati che il ballottaggio può produrre.
E allora riemerge l’antica anima della democrazia italiana, attaccata sia al bicameralismo sia alla formula elettorale proporzionale, cioè alle scelte originarie della nostra Costituzione. È l’orientamento di chi preferisce decidere insieme, piuttosto che contrapporsi, indebolire il governo, piuttosto che contare sull’alternanza, rendere mite il potere anche a costo di renderlo inefficace. È il punto di vista della democrazia kelseniana, secondo cui «è di estrema importanza che tutti i gruppi politici siano rappresentati in Parlamento in proporzione della loro forza» e «maggioranza e minoranza devono potersi intendere vicendevolmente», al quale si contrappone la democrazia schumpeteriana per cui «il metodo democratico è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso la competizione che ha per oggetto il voto popolare».
Se un popolo è anche la sua storia, nel passato di quello italiano è iscritta una lunga serie di compromessi, di rinvii, di adattamenti (per intenderci, quelli che sono all’origine del persistente alto debito pubblico del nostro Paese), alla quale si aggiunge oggi il desiderio di quasi tutte le forze politiche di contarsi e di controllarsi reciprocamente in modo che nessuno vinca, ma anche senza che qualcuno perda.
Se andassimo lungo questa strada, ci ritroveremmo al punto di partenza, al 1946, Parlamento bicamerale e sistema elettorale proporzionale e metteremmo la parola fine al lungo ciclo che si aprì alla metà degli anni 70, quando si cominciò a pensare che occorresse stabilizzare i governi e introdurre contropoteri in luogo del consociativismo, abbandonando il complesso del tiranno. Più che una Repubblica da riformare vi sarebbe una Repubblica da ritrovare nella sua forma originaria.
Se andassimo su questa strada, occorrerebbe almeno seguire il modello tedesco, che corregge la formula proporzionale con una soglia di sbarramento e con la sfiducia costruttiva, in modo da incentivare aggregazioni delle forze politiche e da evitare la precarietà dei governi. Ma molte altre formule sono state proposte e discusse, alcune anche sperimentate, in Italia, in quel grande cantiere che sono i governi locali, regionali e comunali, che costituivano una volta il campo nel quale collaudare formule e istituti da introdurre poi al centro.
Non sarà facile giungere a una soluzione. Se avesse vinto il Sì, ci sarebbe stato un vincitore. Il No ha troppi padri, tanto diversi, per cui una legge elettorale che vada bene a uno non andrà bene all’altro. Questo è uno dei paradossi della votazione appena svolta: c’è una vittoria, ma non c’è un vincitore. L’altro è che la Costituzione, che ha settant’anni, non si deve cambiare, mentre si deve cambiare la legge elettorale che ha solo un anno, e non è stata neppure ancora applicata.

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