Il 10 marzo scorso la Camera dei Deputati , con 253 voti favorevoli 117 contrari e un solo astenuto, ha approvato la proposta di legge. Ora passa all’esame del Senato e sono annunciati molti emendamenti
Ècertamente difficile volgere lo sguardo oltre la coltre di disumanità assoluta dalla quale siamo stati coperti con la folle guerra innescata del Presidente della Federazione russa contro la popolazione ucraina. Tuttavia uno dei rischi da scongiurare è quello di rinunciare ad occuparci della tutela anche degli altri diritti fondamentali delle persone tra i quali quello alla vita, comprensivo anche del segmento non meno importante della sua conclusione e le modalità attraverso le quali può avvenire. Il 10 marzo scorso la Camera dei Deputati , con 253 voti favorevoli 117 contrari e un solo astenuto, ha approvato la proposta di legge sul fine vita. Un risultato importante anche se, è bene mettere in guardia gli inguaribili ottimisti, il percorso è ancora lungo e verosimilmente la seconda parte dello stesso, quella dell’esame del Senato, sarà più impervio. Il fine vita, d’altra parte, è notoriamente un argomento oggetto di serrato dibattito nel variegato panorama internazionale, dove comunque delle regole sono state stabilite.
In molti paesi europei ed americani, seppure con modulazioni differenziate, è ammesso il suicidio assistito. In Svizzera, ad esempio, si tratta di una pratica possibile a condizione che la persona che lo richieda oltre ad essere informata su possibili alternative, si trovi in stato di «sofferenza inguaribile» e nella piena capacità di intendere e volere. Non devono sorprendere quindi i contrasti di opinione sorti in Italia , tanto più se si considera che la problematica è di forte impatto religioso ed etico. Ciò che non è accettabile è la poco invidiabile unicità del nostro Paese che nonostante gli interventi giurisdizionali anche ai massimi livelli, tra i quali in ultimo la sentenza della Corte Costituzionale del 2019 (la n. 242), non ha ancora risolto la questione a riprova delle problematiche istituzionali e della crisi della funzione di rappresentanza che ormai da troppo tempo ci affliggono.
La sfiducia verso la possibilità che si possa giungere ad una legge dello Stato che regolamenti il suicidio assistito, fonda sulle contraddizioni del sistema e la evidente indisponibilità di attuare interventi riformatori in linea con le nuove esigenze culturali prima ancora che giuridiche, economiche e sociali. È un fatto incontrovertibile che anche dopo la bocciatura del referendum non si intraveda la conclusione dell’ iter della legge sul fine vita, avviato con una proposta popolare depositata nell’ormai lontano 2013 con le firme di 67mila cittadini.
Nella prossima tappa in Senato, dopo il via libera della Camera dove molto faticosamente è stato possibile incardinare il dibattito su un testo base che ha unificato varie proposte, si dovranno affrontare numerosi emendamenti tenendo conto che la legge scontenta tutti. Persino i promotori dei referendum che nel giudicarla insufficiente e discriminatoria ne invocano la modifica. D’altra parte una alternativa non c’è poiché anche al tempo della invocata democrazia diretta, pur essendo già evidente che il referendum popolare, vale a dire l’unico strumento disponibile per attuarla, fosse un’arma spuntata in quanto palesemente anacronistica, nessuno si è preoccupato seriamente di riformarlo quantomeno per scongiurare che dopo la faticosa raccolta di migliaia di firme si potesse giungere come è avvenuto, ad una seppure legittima dichiarazione di inammissibilità. Un accertamento che, con le dovute garanzie di costituzionalità e di non congestionamento della Suprema Corte , ben potrebbe essere effettuato preventivamente.
Purtroppo non è l’unica aporia. La lamentata irrilevanza del Parlamento certo non si concilia con la mancata assunzione di decisioni da parte dello stesso, soprattutto in ordine a problematiche di alta conflittualità come, per l’appunto, quelle del fine vita. Sempre, e non soltanto quando può far comodo, deve essere ricordato che il Parlamento è collocato dalla Costituzione al centro della vita politica del Paese e che rappresenta il luogo istituzionale nel quale si determinano gli indirizzi politici, sulla base di un confronto che deve consentire il raggiungimento di un accordo o quantomeno di una decisione.
Per quanto riguarda il «fine vita» i giudici costituzionali sin dal 2018 (ordinanza n. 207) hanno ribadito che l’articolo 2 della Costituzione, esattamente come prevede l’articolo 2 del CEDU, obbliga lo Stato a tutelare la vita di ogni individuo ma non di riconoscere a quest’ultimo la possibilità di ottenere un aiuto a morire. Una precisazione ribadita anche nella successiva sentenza del 2019 (n. 242) con la quale è stato anche deliberata l’esclusione della punibilità «dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici». Decisioni che possono essere più o meno condivise ma indubbiamente utili a chiarire che la questione non può essere risolta dai giudici e che il Parlamento Italiano deve assumere, qualunque esso sia, un provvedimento chiaro, organico e risolutivo.