Fonte: Corriere della Sera
di Beppe Severgnini
Quando tutto questo finirà avremo davanti a noi tre avversari impegnativi. Sarà importante non dimenticare quello che stiamo imparando oggi
Guardando le immagini degli abitanti di Parigi in fuga dalla città (qui il video-racconto di Stefano Montefiori), mi è tornato in mente un racconto di Dino Buzzati. S’intitola «È successo qualcosa». Il protagonista rientra in treno a Milano e s’accorge che tutti vanno in direzione opposta: stanno scappando, con ogni mezzo. Si sporge dal finestrino, domanda. Tutti corrono, nessuno risponde. Afferra un quotidiano in una stazione, gli resta in mano un angolo della prima pagina, le ultime lettere di un titolo scritto a caratteri cubitali: “…IONE”. Tutti scappano da qualcosa che finisce per “…IONE”. Rivoluzione? Alluvione? Esplosione? Invasione? Non lo sa. Il treno corre verso questa cosa, qualunque cosa sia.
Anche infezione finisce in “…ione”. Anche oggi qualcuno ha la tentazione di lasciare tutto e scappare, davanti all’avanzata del Covid-19. Ma la maggioranza dei milanesi, concittadini di Buzzati, oggi non scappa: resiste. È vero, alcuni hanno cercato di rientrare in famiglia, in altre parti d’Italia. Incertezza e isolamento sono una combinazione insidiosa, che produce ansia. Ma bisogna ragionare: il contagio si evita separandosi per qualche tempo, non trasportandolo qui e là.
Il panico contagia: ma nessun numero rivela quanto. Mi chiedo se molte persone riflettano, prima di pubblicare sui social. Non parlo dei mestatori di professione, ai quali non sembra vero avere un argomento spaventoso e un pubblico da spaventare. Non parlo dei voltagabbana, quelli per cui, fino a una settimana fa, era una finzione e adesso è la fine del mondo. Non parlo di quelli che Claudio Cerasa, sul Foglio, ha chiamato «gli sciacalli del Coronavirus»: prendono una brutta notizia e la sventolano, convinti che dimostri qualche loro tesi strampalata. Parlo di persone serie e spaventate, incapaci di capire che lo spavento può cancellare la serietà. Molti lavorano nei media (giornalisti, scrittori, attori, registi, cantanti): sui profili social personali si abbandonano a giaculatorie, proposte grottesche, commozioni infantili, battute fuori luogo, intimità inutili, confidenze indebite. Un maniera ingenua per difendersi dal panico o un modo inconsapevole di diffonderlo?
Perché il panico, come il virus, è astuto: sa come infilarsi dentro di noi.
Pensiamo, invece, in modo costruttivo. Ce lo insegnano medici e infermieri, la disperazione è un lusso che non possono permettersi. Pensiamo come distribuire le mascherine con intelligenza, appena saranno disponibili, dando la precedenza a chi ne ha bisogno (per portare fuori il cane in solitudine, non servono). Pensiamo a come proteggere gli anziani. Perché il nostro modello sociale li ha resi più vulnerabili. Il ruolo dei nonni nelle famiglie avvicina Italia e Spagna: forse non a caso, sono i due Paesi dove la mortalità è alta, rispetto ai contagi.
Pensiamo alle straordinarie lezioni che stiamo imparando, e sulla necessità di non sprecarle. Alla fine dell’emergenza – che arriverà, magari prima di quanto immaginiamo – dovremo batterci contro tre avversari impegnativi: l’inevitabile recessione economica, la prevedibile ripresa delle ostilità politiche. Ma anche l’euforia, che è la sorella spettinata del panico. Una euforia che potrebbe portarci alla rimozione: le settimane del virus svanite, come un brutto sogno al mattino. Vorrebbe dire sprecare un’esperienza. E le esperienze, soprattutto quelle difficili e faticose, non si sprecano: si ricordano e si studiano, invece.
È una lezione che l’umanità dovrebbe aver imparato, dopo guerre e catastrofi. Ma, ogni tanto, se la dimentica.