25 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Maurizio Ferrera

Forse si dovrebbe rispolverare la vecchia idea di nominare un ministro per la Ue per ciascun Paese, che lavori per il suo interesse ma non come «controparte» dell’Unione


Come al solito, l’Europa non si è vista: questa la critica che abbiamo sentito nelle ultime settimane da vari governatori e da esponenti dell’opposizione. Ma perché e come la Ue avrebbe dovuto farsi vedere? Come altri hanno giustamente osservato, l’assistenza sanitaria è prerogativa degli Stati membri, che ne sono molto gelosi. Se i governi tengono legate le mani di Bruxelles, non dobbiamo stupirci dell’inazione europea. A prima vista il ragionamento non fa una piega. Ma non regge, entrambe le parti sbagliano. E anche Bruxelles ha le sue colpe. Il Trattato di Lisbona riserva agli Stati membri la responsabilità esclusiva per le politiche sanitarie e l’organizzazione dei servizi medici . L’Unione non può né deve intervenire: sul piano dei principi, i governatori del Nord si devono rassegnare. Ma non finisce qui. L’ articolo 168 del Trattato stabilisce infatti che l’Unione «completa le politiche nazionali per la prevenzione delle malattie e per l’eliminazione delle fonti di pericolo per la salute». L’azione Ue, si precisa, «comprende la sorveglianza, l’allarme, e la lotta contro gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero». Dunque qualcosa l’Europa può fare. Anzi, nel 2013, Parlamento e Consiglio hanno definito con precisione le modalità d’intervento per le emergenze (come il coronavirus): sistemi di allerta e monitoraggio comune, valutazione dei rischi, coordinamento delle risposte nazionali, acquisto congiunto di attrezzature sanitarie, persino l’invio di squadre di soccorso nei paesi più colpiti. È possibile anche mobilitare il bilancio Ue (nonché i fondi del famoso piano Juncker a sostegno degli investimenti) al fine di co-finanziare interventi straordinari nella sanità.
Insomma: sbaglia anche chi sostiene che la Ue non ha né competenze né risorse. Se è cosi, come le ha usate nelle ultime settimane? Sappiamo che non è stata intrapresa alcuna azione visibile per i malati, gli operatori sanitari, le amministrazioni locali: le critiche di alcuni governatori sono dunque in parte giustificate. Non possiamo però pensare che non sia stato fatto proprio nulla. In effetti, il più recente comunicato stampa della Commissione menziona qualche intervento concreto: sostegno ai rimpatri dalla Cina, 250 milioni di fondi stanziati per l’Organizzazione mondiale della sanità e per la ricerca sui farmaci, cinque rapporti di valutazione del rischio. Si citano poi varie attività di coordinamento e di indirizzo. Tanto o poco? Francamente, pochino. Il Consiglio ha convocato a sua volta una riunione dei ministri sanitari il 13 febbraio scorso. Dalle conclusioni del vertice, si capisce che non si è presa alcuna decisione rilevante, a parte un invito alla Commissione ad attivare tutti i meccanismi previsti e a cercare fondi nelle pieghe del bilancio. Ben scarsa intraprendenza emerge anche dai verbali del Comitato intergovernativo per la sicurezza sanitaria istituito nel 2013. Nell’ultima seduta (Lussemburgo, 2 marzo, in collegamento audio) si sono sollevate molte domande, ma non è stata fornita alcuna risposta. Solo esortazioni affinché ciascun Paese attivi i propri meccanismi di prevenzione, valuti la limitazione di viaggi e assembramenti e varie banalità di questo genere. Tempo perso.
Il quadro complessivo è piuttosto sconfortante. Bruxelles ha le sue colpe e non può nascondersi con la foglia di fico del «non abbiamo i poteri». Però attenzione: nel Consiglio dei ministri e nel Comitato per la sicurezza siedono i rappresentanti degli esecutivi nazionali, sono loro che dovrebbero dare l’impulso e spronare la Commissione. La domanda giusta da porre è perciò: perché i governi non «usano» l’Europa anche quando potrebbero farlo a fin di bene (il proprio bene)?
Ci sono due possibili risposte. La prima è che quando si tratta di decidere su misure concrete, in particolare quelle che riguardano risorse finanziarie comuni, gli Stati membri si dividono, litigano e paralizzano la Commissione. La seconda risposta è più banale. I governi cambiano, chi viene dopo non sa bene che cosa è stato deciso prima, le burocrazie sono distratte e disattrezzate: così nessuno dedica tempo e attenzione a usare bene l’Europa. Del resto, come si potrebbe farlo seriamente collegandosi per telefono a una riunione con ventisette delegati?
La famosa «Europa dei cittadini» non può nascere se Commissione e governi nazionali non si rimboccano congiuntamente le maniche sulle questioni che riguardano da vicino la nostra vita quotidiana. Quale emergenza più grave del coronavirus vogliamo aspettare? C’è ancora tempo per prendere misure visibili, concrete ed efficaci: soldi, naturalmente, ma anche materiale, mezzi e persino squadre di soccorso con i caschi blu a stelline gialle. La sfida, si badi bene, non è solo pratica o organizzativa. È essenzialmente politica: riguarda infatti la legittimazione dell’Europa come comunità solidale e come governo comune.
Forse varrebbe la pena di rispolverare una vecchia idea: quella di nominare, per ciascun Paese, un ministro per l’Europa che risieda stabilmente a Bruxelles e che impari davvero come usare tutti gli strumenti e le risorse disponibili su ogni questione. A beneficio del proprio Paese, certo. Ma non come «controparte» della Ue, bensì come condomino di un edificio ancora fragile, che deve essere salvaguardato grazie al sostegno di tutti i cittadini.

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