Dopo il 25 aprile. Colpisce l’afasia non tanto su antifascismo e Resistenza, ma sulla stagione democratica che vi ha fatto seguito
Il 25 aprile è passato, portandosi appresso molte delle polemiche che lo hanno preceduto: polemiche roventi, sì, ma spesso male impostate sia sul piano storico sia (di conseguenza, si sarebbe detto una volta) su quello politico. Dal momento che, si può esserne certi, la questione non è chiusa, vale forse la pena di soffermarcisi ancora un po’ su. Nessuno può ragionevolmente sostenere che in Italia o altrove esista un pericolo di ritorno al fascismo per così dire classico, o dell’avvento di un fascismo di tipo nuovo. Ma, allo stesso tempo, nessuno può ragionevolmente negare un’evidenza fino a qualche tempo fa letteralmente impensabile: il fatto cioè che per la prima volta nella storia repubblicana alla guida del governo e (si badi) del partito di maggioranza relativa c’è una giovane donna che, come molti dei suoi, i primi passi in politica li ha mossi nel Movimento sociale. Pretendere che Giorgia Meloni e Fd’I plaudano entusiasti alla natura antifascista della Costituzione, vigorosamente (e giustamente) riaffermata da Sergio Mattarella, è un po’ come intimare al tacchino di inneggiare al pranzo di Natale: ma la, anzi, il presidente del Consiglio questo rospo lo ha tutto sommato mandato giù. Più complicato sarebbe per lei, e soprattutto per i suoi sodali più grandicelli, fare i conti con la storia del Movimento sociale. Per il semplice motivo che, giovani o giovanissimi, è nel Msi, non nel Partito nazionale fascista, o nel Partito fascista repubblicano, che si sono riconosciuti, talvolta ricoprendovi, è il caso del più anziano Ignazio La Russa, ruoli non secondari.
Ora. La parte del Msi nel lungo dopoguerra repubblicano fu sicuramente più complessa, o per meglio dire più ambigua, di quanto voglia una certa volgata. Sin dal congresso di fondazione (Napoli, 1949), dietro lo schermo del «Non rinnegare, non restaurare», in questo partito faticosamente convissero, tra scontri furibondi e fragili compromessi, una «sinistra» socialeggiante che aveva le sue radici nella Rsi, a lungo capeggiata da Giorgio Almirante, e una destra più incline alla manovra politica, in Parlamento e nelle amministrazioni locali. Ma, altrettanto sicuramente, da tutto questo non si può trarre la conclusione che la storia del Msi sia stata quella, o soprattutto quella, di un partito che, «rimasto escluso per ovvie ragioni storiche» dal processo costituente, «si impegnò a traghettare milioni di italiani nella nuova repubblica parlamentare, dando forma alla destra democratica», come ha scritto Giorgia Meloni nella lettera al Corriere del 25 aprile.
Per restare a tempi non lontanissimi: chiunque abbia vissuto la stagione inaugurata, nel 1969, dalla strage di Piazza Fontana sa che le cose non stanno così. Non deve essere un caso se nel 1949, Pietro Nenni, vecchio e malato, trovò la forza di recarsi per l’ultima volta al Senato, pur di evitare che a presiedere la seduta inaugurale della legislatura fosse il missino Araldo di Crollalanza. E non deve essere un caso neppure se, per «dare forma alla destra democratica», il Msi, un partito che ancora nel 1991 aveva per segretario Pino Rauti, il fondatore di Ordine Nuovo, toccò seppellirlo.
Per utilizzare un cortese eufemismo, sembra quanto meno un po’ eccessivo sostenere che il Msi abbia svolto sulla destra, a maggior gloria della Repubblica, un ruolo in fondo non troppo dissimile da quello esercitato dalla Dc nei confronti del clericalismo più retrivo e della piccola borghesia più incline a una deriva reazionaria, e dal Pci nei confronti di ampi settori della classe operaia e del partigianato del Nord, convinti che alla Resistenza potesse e dovesse far seguito una spallata rivoluzionaria. Non è solo la storia del Msi a essere diversa. Diversa, molto diversa è la storia di una Repubblica che, caso unico tra gli sconfitti della guerra mondiale, si fonda su una Carta scritta in quei termini, e non in altri, grazie alle forze che la Resistenza la avevano fatta. È, questa, una considerazione che dovrebbe risultare ovvia a dir poco. Peccato che, in questi banalissimi termini, non la abbia fatta nessuno. E a colpire è soprattutto il silenzio, rotto solo, e neanche troppo implicitamente, dalle parole di un capo dello Stato che abbiamo conosciuto quando era un esponente della sinistra democristiana, di chi dentro questa storia – i suoi partiti, le sue culture politiche, le sue pagine gloriose e le sue pagine nere – è nato, si è formato, ha combattuto tante battaglie, giuste e sbagliate, ha imparato su cosa era giusto e opportuno litigare e su cosa invece era doveroso, nonostante le durezze della lotta politica, almeno cercare di restare uniti: il silenzio non sull’antifascismo e la Resistenza, ma su quello che vi ha fatto seguito, di quanti sono stati democristiani, comunisti, socialisti, o hanno militato nei partiti di democrazia laica e liberale (e insomma ha fatto consapevolmente parte della Prima Repubblica, l’unica che abbiamo avuto modo di conoscere, nonostante da trent’anni in qua ne siano state enumerate non so più quante altre) e dei loro pallidi eredi. Non sarebbe un esercizio politico e intellettuale inutile, cercare di spiegare una simile afasia. Ci ha provato giorni fa, sulla Stampa, Marco Follini, arrivando a una conclusione sconsolata e sconsolante: chi ha smarrito da un pezzo la propria memoria (o, aggiungo io, ha provato, peraltro senza successo, di nasconderla sotto il tappeto, invece di rielaborarla criticamente e dolorosamente), non può pretendere né di rivendicarla né, tanto meno, di trasmetterla a generazioni più giovani. Non so se Follini abbia colto nel segno, ma spiegazioni più convincenti fatico a trovarle.