16 Settembre 2024

Stati Uniti: il lascito del Presidente, decisivi i suoi interventi nell’economia post Covid, ha riportato gli Usa negli accordi sul clima e rivitalizzato la Nato

Ci sono molte similitudini fra Lyndon Johnson e Joe Biden. «We shall overcome», disse Johnson al Congresso citando Joan Baez presentando il Civil Rights Act, la legge che avrebbe posto fine alla segregazione razziale nel Sud. Era il 15 marzo 1965. Sull’onda dei fatti di Selma, in Alabama, dove la polizia aveva caricato con bestiale violenza la marcia degli afroamericani per i diritti civili, il presidente degli Stati Uniti trovò le parole che avrebbero definito il suo lascito. O almeno così credeva. Soltanto tre anni dopo Johnson, travolto dalla protesta contro la guerra del Viet-Nam, rinunciò a ricandidarsi per un secondo mandato. Da allora, una macchia indelebile ha sporcato la legacy riformatrice e progressista di uno dei più grandi presidenti della storia americana.
Anche Joe Biden si è ritirato, gettando la spugna all’ultimo round sul ring di una drammatica campagna presidenziale. E anche Biden come Johnson può rivendicare un bilancio politico ed economico straordinario nei suoi quattro anni al vertice. Di più, se i motivi del ritiro sono in apparenza diversi — allora fu il tormento di una guerra costata la vita a quasi 60 mila soldati americani, oggi è l’allarmante declino fisico e mentale del presidente — sostanzialmente la ragione è la stessa: la certezza di entrambi di non poter più essere rieletti.
C’è voluto mezzo secolo, perché l’America guardasse in modo più equo e riconoscente all’eredità di Johnson, anche grazie alla monumentale biografia di Robert Caro, iniziata nel 1982 e ormai alla vigilia del suo quinto e definitivo volume. Quanto ci vorrà per Joe Biden? E qual è la sua vera legacy? Soprattutto, cosa ne sarà, sia in termini di racconto che di durata?
«La Storia sarà più gentile con lui, di quanto non lo fossero gli elettori in questo scorcio finale», mi dice David Axelrod, stratega e poi consigliere di Barack Obama alla Casa Bianca.
Quando Joe Biden entrò nello Studio Ovale, l’America era alle prese con la più mortifera pandemia in cento anni e il più grave collasso dell’economia dalla Grande Depressione. La sua prima risposta fu un pacchetto da quasi 2 mila miliardi di dollari, che hanno finanziato programmi contro la povertà infantile, evitato milioni di licenziamenti e contribuito alla creazione di quasi 16 milioni di posti di lavoro. Seguirono 1200 miliardi per rifare le infrastrutture del Paese, il Chips and Science Act da 280 miliardi per strappare alla Cina il monopolio dei semiconduttori, e non ultimo l’Inflation Reduction Act da 2200 miliardi che incentiva le aziende a investire nelle più avanzate tecnologie climatiche. Ancora, Biden ha riportato gli Usa dentro gli accordi di Parigi sul clima e ha assicurato la loro permanenza nel Who, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. L’altra faccia di questo gigantesco lascito economico è stato il ritorno dell’inflazione, che ha seminato scontento e rifiuto negli americani, anche perché passeranno anni prima che gli effetti di quella mole d’investimenti siano percepiti e visibili.
Al netto del disastroso ritiro dall’Afghanistan, peraltro già negoziato da Trump,Joe Biden è stato soprattutto il presidente che ha resuscitato la Nato, ridandole raison d’être e ampliandola. Quando il 24 febbraio 2022Vladimir Putin scatenò l’invasione dell’Ucraina, egli prese la guida dell’Occidente, forgiando una risposta unita, e formidabile, alle mire neoimperialiste del Cremlino. Non era obbligato a venire in soccorso di Kiev, che non era membro dell’Alleanza. Ma la scelta aveva radici profonde, quelle della Guerra Fredda, di cui Biden è uno degli ultimi testimoni. Sono queste ad averlo convinto che, se Putin non venisse fermato in Ucraina proseguirebbe nell’azione di smantellamento dell’ordine liberale, di cui egli si sente estremo difensore. Il sostegno all’Ucraina ha in realtà anche un altro destinatario, la Cina. Se l’America cedesse a Kiev, Biden è certo che per Xi Jinping sarebbe un incoraggiamento ad agire contro Taiwan.
Criticato su Gaza, dove non ha saputo bilanciare il doveroso sostegno a Israele con l’indicazione di precise linee rosse a Netanyahu, Biden lascia il suo segno anche nell’Indo-Pacifico: lì il dialogo serrato con Pechino si accompagna a iniziative di contenimento dell’espansionismo cinese, favorendo la nascita di cooperazioni regionali, come quella tra Giappone e Corea del Sud.
Cosa sarà di questa legacy, dipende tutto dal risultato elettorale. Se vincesse la coppia Trump-Vance, molte di queste politiche, all’interno e all’estero, dal clima all’Ucraina, verrebbero probabilmente smantellate. Comunque vada, una cosa è certa già da ora. La fine di un’era. Con Joe Biden esce infatti di scena l’ultimo degli atlantisti, quella generazione di leader americani convinti che le due sponde dell’Oceano, Stati Uniti e Europa, condividessero un legame vasto, profondo e indissolubile. Noi europei faremmo bene a ricordarlo.

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