23 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Paolo Miele

Ha iniziato Merkel, ha proseguito Juncker. Ma c’è qualcosa di poco autentico nell’autocritica per le sofferenze inflitte alla Grecia da Unione, Bce e Fmi


C’è qualcosa di stridente e di inautentico nell’autocritica europea per le sofferenze che quattro anni fa furono inflitte dalla Ue, dalla Bce e dal Fmi alla Grecia. Ha iniziato, ai primi di gennaio, Angela Merkel che, in occasione di una visita ad Atene, ha esibito cauti segni di contrizione e ha detto essere la Germania «cosciente della propria responsabilità storica per la sofferenza inflitta al popolo greco durante l’occupazione nazista nella seconda guerra mondiale». Parole doverose pronunciate forse anche per cancellare la memoria dei violentissimi moti di piazza che misero la stessa Merkel in grande imbarazzo qualche anno fa allorché, al culmine della crisi, si recò nella capitale ellenica per incontrare l’allora premier Antonis Samaras. Ma il riferimento all’occupazione hitleriana rimanda – non si sa se volontariamente – alla richiesta di risarcimento per la suddetta «sofferenza» che qualche esponente politico greco avanzò nel 2015 spingendosi a quantificarla in un ammontare sbalorditivo: 162 miliardi di euro. Indennizzo che, lo scorso settembre, durante una visita a Creta, l’attuale primo ministro Alexis Tsipras ha ritenuto di conteggiare al rialzo: ben 279 miliardi. La signora Merkel non ha preso ovviamente nessun impegno a ripagare i greci per i patimenti inflitti loro dai tedeschi tra il ’41 e il ’44, ma si può essere certi che la sua – ripetiamo: doverosa – ammissione di colpa avrà ripercussioni.
Sul caso greco ha poi ritenuto di dover tornare, in modo assai meno cauto di quello della cancelliera, il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker il quale, in occasione del ventesimo compleanno dell’euro, ha definito «avventata» e «scriteriata» la politica di austerità che nel 2015 fu adottata dall’Europa e dal Fondo monetario internazionale nei confronti della Grecia, ha accusato se stesso e l’intera élite europea di «mancanza di solidarietà» verso quel popolo «da noi coperto di contumelie». E di questo si è detto «profondamente rammaricato». Siamo in presenza di un tipo di autocritica assai particolare. Da quel 2015 è trascorso troppo poco tempo perché si sia persa memoria della circostanza che Juncker, all’epoca presidente dell’Eurogruppo, si schierò dalla parte opposta a quella degli intransigenti impersonatasi nel ministro tedesco dell’Economia Wolfgang Schäuble. Siamo in presenza perciò di un caso (non infrequente) di «autocelebrazione» travestita da atto di contrizione. Senza che poi l’autore di tale appena dissimulato encomio a se stesso avverta l’esigenza di essere più circostanziato su tempi e modi in cui all’epoca sarebbe stato commesso l’errore. E su cosa, a suo avviso, si possa fare adesso per ripararlo.
Per stare ai fatti di quattro anni fa, è vero che la Ue si irrigidì e che in molti già all’epoca sostennero che la Grecia fosse troppo piccola per giustificare tale irrigidimento. Ma è altrettanto vero che erano trascorsi già sei anni da quando Papandreou nell’ottobre del 2009 aveva pubblicamente ammesso il trucco dei conti del suo Paese al momento di entrare in Europa. Ed è incontestabile che la Grecia sembrava ormai essersi rassegnata a una sorta di fisiologia del default (del resto, dalla sua indipendenza, nel 1830, ne aveva conosciuto uno per ogni biennio); che dagli anni Settanta aveva aumentato gli occupati al ritmo dell’uno per cento ogni dodici mesi nel settore privato e del quattro in quello pubblico; che al momento di ridefinire le pensioni era riuscita a individuare ben 580 professioni usuranti tra le quali i presentatori tv «a rischio» per l’accumulo di flora batterica nei microfoni.
È vero anche che all’epoca, 2015, dopo l’ammissione di Papandreou, l’Europa le aveva già «prestato» 240 miliardi di euro (anche se poi gran parte di quei soldi erano finiti a rimettere in sesto le banche); che la spesa per gli statali — un settore che nei primi dieci anni del terzo millennio si era espanso a dismisura crescendo del 6,5% l’anno — tale spesa, dicevamo, aveva continuato a crescere; che le retribuzioni e le pensioni minime greche ancora nel 2015 erano più elevate di quelle di alcuni Paesi europei chiamati a partecipare ai programmi di aiuti (una pensione media in Grecia ammontava a tre volte quella dello stesso tipo in Polonia). Veronica De Romanis ha giustamente fatto notare che per andare in soccorso ai Paesi europei in difficoltà (non solo la Grecia, anche Irlanda, Spagna, Portogallo e Cipro) l’Italia ha sborsato circa 60 miliardi di euro, di cui la metà hanno preso la direzione di Atene. E che nelle tavole della Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza pubblicato nel settembre scorso è evidenziato come nel 2017 il rapporto debito/Pil al lordo degli aiuti si attesti al 131,2 per cento mentre al netto degli aiuti scenda al 127,8. Non poco per un Paese, come il nostro, reduce da un dibattito sulla manovra di Stabilità nel corso del quale si è potuto costatare quanto fossero stretti i margini per portare a termine, con il consenso europeo, la manovra suddett.
Va aggiunto che persino l’allora leader socialdemocratico nonché vicecancelliere Sigmar Gabriel si disse favorevole a un’uscita della Grecia dall’euro (sia pure solo per una durata di cinque anni). Del resto la mancata percezione della gravità della crisi in Grecia si può intuire da un episodio significativo: nel 2010 Andreas Georgiou, funzionario del Fondo monetario internazionale, era stato richiamato in patria e messo a capo dell’Eistat, l’Istituto di statistica ellenico, per fare chiarezza sulla reale entità del debito; Georgiou aveva rivisto tutti i conti, aveva scoperto che erano stati falsificati e — come era doveroso — ne aveva denunciato pubblicamente la contraffazione. Poi nel 2015, cioè al momento in cui il suo Paese avrebbe dovuto essere stabilmente in cammino sulla via del ravvedimento, per quella sua denuncia Georgiou — sulla base di una norma stabilita all’epoca dei regime dei colonnelli — fu accusato di violazione dei doveri fiduciari e persino di tradimento nei confronti dello Stato; dopodiché per difendersi dovette affrontare spese proibitive e si rese persino necessario aprire, in suo favore, una colletta internazionale.
Così quando proprio in quel 2015 quelli che oggi sono oggetto dell’«autocritica» di Juncker si mostrarono meno indulgenti con la Grecia si giunse a un divorzio tra Tsipras rassegnato a fare i conti con la realtà e il ministro dell’Economia Yanis Varoufakis deciso a insistere nella politica di sfida all’Europa. Tsipras rimase al suo posto, il Paese si rimise in carreggiata e poté conoscere un costante, progressivo allontanamento dall’orlo del precipizio. Quell’atto di Tsipras fu da considerarsi, secondo l’esponente Cdu tedesco Norbert Röttgen, importante come Bad Godesberg, evento che prende il nome della località in cui i socialdemocratici tedeschi alla fine degli anni Cinquanta accantonarono la dottrina marxista.
Fin troppo facile scoprire adesso quanto sia stato poi doloroso per i greci percorrere i sentieri dell’austerità e quanto sarebbe stato meglio per tutti, a cominciare dai greci stessi, se fosse stato possibile incamminarsi per quella via con lo spirito di chi sta compiendo una normale passeggiata. Così come è possibile, guardando all’indietro, identificare i numerosi errori che — come sempre — sono stati compiuti lungo quell’itinerario. Ma è assai pericoloso in un frangente come l’attuale lasciarsi andare a considerazioni come quelle di Juncker. Soprattutto se poi non vengono indicati percorsi alternativi destinati a produrre, tra qualche anno, un minore «rammarico». Per la Grecia e domani, può darsi, anche per l’Italia.

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