16 Settembre 2024

Noi, la Ue e Orbán: ma l’utilità di una destra europea conservatrice e costituzionale è tutt’altro che da archiviare

Chi, nella nuova Unione appena forgiata dal voto di Strasburgo,
si troverà a fare i conti con l’eterno cruccio di un partner improponibile come Viktor Orbán dovrebbe andare a rivedersi un cortometraggio ungherese di successo: «Sing». Premio Oscar nel 2017, il film coglie con forte impatto emotivo il miscuglio di attese e delusioni che dagli anni Novanta ha accompagnato la transizione democratica nei Paesi ex comunisti europei.
L’umiliazione della protagonista, la piccola Zsofi che vorrebbe cantare nel coro della scuola ma ne è impedita in nome di una «meritocrazia» tutta occidentale, può essere una chiave preziosa per capire (senza giustificazionismi pelosi) la ribellione che sta dietro l’insorgenza del premier di Budapest e la retorica identitaria alla base del suo continuo sabotaggio delle nostre istituzioni comuni. Orbán, al di là della sua sudditanza ai boss del sovranismo mondiale, va studiato: può essere un’utile cartina di tornasole per l’Europa. Perché ne enfatizza limiti e difetti d’origine.
Il limite principale della nostra comunità è l’inefficacia. Ancora una volta, il primo ministro magiaro l’ha fatta franca o quasi. Aveva intrapreso a nostro nome, quale presidente di turno della Ue, un abusivo «viaggio della pace» nelle capitali interessate al conflitto ucraino in via diretta o per influenza geopolitica (Kiev, Mosca, Pechino), per poi concluderlo con deferenza alla corte di Trump, portando con sé il mantra di sempre, secondo cui «Putin sa come concludere la guerra» (lo sa, eccome: gli basta sottomettere gli ucraini). Accusato di avere ampiamente travalicato il suo ruolo, Orbán è stato tacciato di slealtà, minacciato di estromissione dalla presidenza di turno e perfino della cosiddetta «opzione nucleare», quel mai applicato articolo 7 del Trattato di Amsterdam col quale si sospendono i diritti di adesione alla Ue per gli Stati che non ne rispettino i valori. Alla fine, tanto tuonò che piovvero appena un paio di goccioline.
L’Ungheria subirà il 28 e 29 agosto un buffetto, fastidioso sul piano del prestigio ma del tutto simbolico: il trasferimento da Budapest a Bruxelles del consiglio informale dei ministri degli Esteri dell’Unione. E Ursula von der Leyen, nel discorso per la riconferma alla guida della Commissione, ha dedicato una stoccata al tour orbaniano: «Non una missione di pace ma di appeasement», ha detto, con riferimento alla genuflessione delle democrazie davanti a Hitler nel 1938. È alle viste qualche altro gesto dimostrativo nei consigli informali che verranno. Ma, nonostante la clamorosa violazione della politica comunitaria, nessun’altra misura appare realistica, a normativa vigente. Sicché da questa vicenda scaturisce una domanda che l’Europa non deve eludere. Quale credibilità può avere un’entità sovranazionale non solo impossibilitata dalle sue contorte regole a liberarsi di un corpo estraneo al suo tessuto valoriale ma che, addirittura, può in base a ottusi automatismi burocratici finire per essere rappresentata proprio da questo alieno sui palcoscenici internazionali?
Come ha notato Guido Santevecchi, le escursioni di Orbán a nostro nome in giro per il mondo sono incursioni contro la politica estera concordata nella Ue. Un sostanziale atteggiamento da quinta colonna che, tollerato com’è, rende risibile qualsiasi progetto europeo proiettato, al di là del terreno economico, verso un’autentica federazione con politica estera e difesa comuni. Insomma, il caso denuda tutto il velleitarismo dell’Europa, con lo sciagurato unanimismo necessario per troppe decisioni chiave. Ciò che ha permesso al premier ungherese di tenerci sotto scacco sine die. Ma guardando oltre lo stereotipo dell’Uomo Nero, Orbán ci dice anche altro. Giovane liberale trasfigurato in attempato teorico della democrazia illiberale, è un paradosso che ci interpella.
Ivan Krastev e Stephen Holmes, nel loro «La rivolta antiliberale», si chiedono cosa abbia trasformato gli entusiasti apostoli del liberalismo e dell’europeismo di inizi anni Novanta (in Ungheria come in Polonia) nella spina dorsale del gruppo sovranista di Visegrád (poi infranto sulle diverse visioni dell’aggressione all’Ucraina). E si rispondono che imporre la mera imitazione del nostro modello occidentale, senza tenere conto delle diversità d’un mondo scongelato dopo mezzo secolo di totalitarismo statalista, delle sue tradizioni e dei suoi timori, fu un peccato di hybris. A lungo abbiamo proiettato l’idea che tramutare gli Stati centrorientali ex comunisti in democrazie di mercato fosse la prova che non c’era bisogno di spingersi oltre nella ricerca della felicità. Ora ci troviamo davanti a un pezzo d’Europa che va in direzione opposta all’Europa: col quale non possiamo strappare, ma non sappiamo come ricucire il tessuto comune.
Orbán è ormai un nemico sotto il nostro tetto ma può insegnarci ciò che nemmeno l’amico più affettuoso potrebbe. Perciò l’utilità di una destra europea conservatrice e costituzionale che sia ponte con l’universo illiberale europeo è, benché appannata dalle ultime scelte a Strasburgo, tutt’altro che da archiviare. Alla piccola e meno dotata Zsofi la maestra Erika impone di mimare in silenzio le parole, così da non inquinare le voci dei coristi più talentuosi: finché, sul palco della gara in Svezia (l’ambìto Occidente…) tutti gli altri bimbi si ribellano e mimano silenziosi le parole della loro canzone in solidarietà con Zsofi. Alla quale, se non un ruolo nel coro, sarà saggio per noi occidentali doc trovare un posto decente sul palcoscenico. A costo di inventarlo per lei.

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